Sveglia
alle 6:45 e partenza per la crociera sul lago Titicaca. Prendiamo una
barca che ci guiderà sulle acque calme del lago per i prossimi due
giorni. La guida ci spiega che il nome Titicaca come lo pronunciamo
noi oggi deriva dagli spagnoli, mentre invece la vera pronuncia Inca
sarebbe Titihaha, in pratica come la pronuncerebbe un toscano.
Dopo
aver sorpassato l'insediamento degli Uros sulle loro isole
galleggianti, le visiteremo domani al nostro ritorno, proseguiamo la
crociera verso le isole esterne del lago. La prima che visitiamo è
Taquile.
Appena
sbarchiamo si comprende subito che l'atmosfera è qualcosa di
completamente diverso dal Perù che abbiamo visto finora: tutti gli
uomini e le donne hanno un particolare costume e la guida ci racconta
che se dobbiamo fare foto è meglio chiedere prima. Fino a qualche
tempo fa la gente del luogo temeva che venendo immortalati gli veniva
rubata l'anima.
Nei
pressi nel porto ci sono diversi isolani che stanno lavorando come
spaccapietre : gli uomini le rompono e le tagliano mentre le donne,
apparentemente anche molto anziane, se le caricano sulle spalle e le
trasportano. La guida dice che sono semplici lavori comunali, non
sono carcerati.
Saliamo
il sentiero che gira attorno all'isola e la guida ci racconta che
sull'isola si vive di pesca, agricoltura e turismo. Tutta l'isola è
terrazzata per la coltivazione già da tempi pre incaici, ma il
raccolto si può fare solo una volta l'anno.
L'abbigliamento
è di tipo europeo, ovvero spagnolo dei tempi in cui un ricco signore
ispano comprò questa e l'isola Amantanì: pantaloni neri, camicia
bianca, piccolo gilet nero e cappello. Questo cambia a seconda dello
stato civile: se si è spostati è tutto rosso, scapoli bianco e
rosso. Portano anche una grande cintura che una volta sposati gli
vengono intessuti e capelli della moglie, così che possa sempre
stare a contatto con lui.
Le
donne invece hanno una larga gonna nera, camicia bianca e un grande
scialle nero con dei "pompones" che pendono ai fianchi: se
i pompones sono grandi allora la donna è nubile, altrimenti è
sposata. La guida dice che così non si deve neanche chiedere e si fa
prima a conoscere le persone interessate.
Mentre
gli altri si accomodano in un piccolo ristorante che da sulla piazza
centrale dell'isola, io e Cassandra ci defiliamo per consumare le
nostre gavette vegane. Nel ristorante, come nei negozi di artigianato
che visitiamo, lavorano settimanalmente alcune famiglie che a turno
variano le loro mansioni. Nel negozio ci sono le solite cose tipo
cappelli, tovaglie e braccialetti, ma hanno un prezzo differente a
seconda della qualità. Questo infatti è deciso dal comitato
dell'isola che valuta quanto può valere e poi applica la tariffa.
Dopo
pranzo scendiamo dall'altra parte dell'isola dove ci attende la barca
per portarci alla prossima meta, l'isola Amantanì.
Scendiamo
dalla barca e al molo ci attendono i quattro famigliari che ci
ospiteranno per la notte. Io, Alba ed Enza, il gruppo vegetariani,
veniamo affidati a Carmen, diminutivo di Carmencita. Di età
indefinibile, è vestita come tutte le donne dell'isola: grande gonna
nera, camicia bianca, sandali e una specie di copertina nera da
tenere in testa e con le mani.
Iniziamo
ad arrampicarci per i sentieri e subito Carmen, nonostante abbia un
passo apparentemente lento, ci distanzia. Siamo sempre a 3800 metri
sul livello del mare e io ho gran un mal di testa da soroche.
Dopo
aver attraversato qualche campo e scavalcato alcune basse mura di
cinta, ci ritroviamo nella sua proprietà. Una piccola casetta rurale
con un minuscolo cortile su cui si affacciano le camere al piano di
sopra, raggiungibili con una traballante scala di legno.
Mi
ricorda un po' la casa di mia nonna sul lago maggiore, a Bee. Roba
ormai di trentacinque anni fa.
Conosciamo
anche il marito, di cui non capisco il nome e le due figlie, la
piccola e bella Mariacielo di due anni e mezzo e la simpatica Irene,
credo adolescente.
La
camera è piccola il giusto per contenere tre letti, ma non è per
niente fredda.
Il
bagno, bello moderno e ben piastrellato, è fuori. Il problema è che
non è solo fuori della camera, ma addirittura oltre il cortile.
Inoltre per raggiungerlo si dovranno scendere le scale. Già mi vedo
a notte fonda, in calzoncini, tentare la discesa due o tre volte
accompagnato solo dalla luce delle stelle e della torcia. Questo
perché non c'è corrente elettrica.
Dopo
aver sistemato lo zaino scendiamo per farci accompagnare in piazza,
dove la guida ci condurrà ai templi di Pacha Mama che è la madre
terra, e Pacha Tata, fratello e marito di quest'ultima. Con una bella
camminata di trecento metri di dislivello, da 3800 a 4100, dovremmo
raggiungere la cima della montagna, senza ossigeno eh.
Già
stare dietro Carmen è stata un impresa, la piazza non era così
vicina come si pensava, la salita per la cima dell'isola poi si
rivela impegnativa, molto.
L'altitudine
si fa sentire così come il mal di testa, così cerco di sopperire
masticando un po' di foglie di coca.
Il
gusto amaro delle foglie secche attenuano solo leggermente il
malessere ma forse non so quanto deve masticarne. Continuo a salire
tra una masticata e l'altra ma il fiato è sempre più corto. Il
panorama in compenso è bellissimo. Si vede tutta l'isola sotto di
noi che è terrazzata per poter coltivale le patate, le fave e
qualche pianta di mais.
Proprio
quando il mal di testa è insopportabile, intorno ai 4000 metri, la
guida ci svela un trucco: ci passa un rametto di muña dicendo di
sfregarlo tra le mani, quindi annusare. Di colpo il fiato torna quasi
normale e il mal di testa si attenua fino a scomparire. Questo mi
permette di arrivare al bivio tra le due cime dell'isola, sulla prima
vi è il tempio quadrato di Pacha Tata, sulla seconda, la più alta,
c'è il tempio esagonale ma che chiamano tondo, di Pacha Mama, madre
terra.
Qui
una volta l'anno, a metà gennaio, si riuniscono tutti gli abitanti
dell'isola per festeggiare Pacha Mama. Il tempio originale, di
origine pre incaica è stato distrutto dagli spagnoli mentre gli
abitanti vennero convertiti al cristianesimo. Quando però gli
spagnoli sono stati cacciati, allora i templi sono risorti sulle
vecchie fondamenta, il che significa che in realtà gli andini non
sono stati convertiti del tutto, anzi.
Aspettiamo
che il sole scenda a dorare le acque del lago Titicaca, qualcuno si
perde in meditazione, Enza sparisce in cerca di un contatto
spirituale, qualcuno cerca il punto migliore per fotografare questo
paradiso. Man mano che il sole si avvicina alla terra la temperatura
cala rapidamente.
Nel
giro di pochi minuti ci rimettiamo tutti gli strati che avevamo
tolto. Al tramonto io, Cassandra e Daniele iniziamo a scendere e la
luce sparisce ancora più rapidamente portandosi via uno alla volta i
meravigliosi colori dell'isola. A metà percorso siamo completamente
immersi nel buio e dobbiamo usare le torce per illuminare il
sentiero, sull'isola le strade non sono illuminate.
Arriviamo
prima di tutti gli altri alla piazza e li aspettiamo davanti alla
statua del primo sovrano Inca: Manco Capac, padre di Manco pa capa e
Manca l'sale, che generarono Manco morto, Manco da casa, Manco li
cani, Manca l'acqua, Manca l'aria e Manco fosse Manco Capac.
Assieme
a Irene, la figlia di Carmencita, torniamo a casa, sempre nel buio
totale. Scendiamo quasi subito a cena, sono le 6:30 (gli isolani
seguono un ciclo diverso dal nostro). Il menù prevede una zuppa di
spaghettini, verdure e patate con il lime. Tutto accompagnato con
acqua bollente e la buonissima tisana di muña. Di secondo riso con
verdure e patate saltate. Buoni tutti i piatti, almeno per me.
Cassandra rifiuta la zuppa, ovviamente.
Non
sono nemmeno le otto quando andiamo a letto, la stanza è piuttosto
fredda, ma io sono più preoccupato dalle sortite notturne per
raggiungere il bagno, quella scala traballante potrebbe essermi
fatale se non ci sto attento. La sento perfino scricchiolare da sola,
come se mi chiamasse. L'immaginazione fa brutti scherzi, era
Carmencita che saliva per darci la buona notte, delle altre coperte e
dulcis in fundo, il vaso da notte. Come se uno di noi tre si dovesse
mettere a fare i propri bisogno in camera davanti agli altri.
Piuttosto rischio l'osso del collo sulla scala.
Dopo
essermi spogliato invece di infilarmi il pigiama indosso maglia e
calzoncini tecnici che uso per correre all'aperto in inverno, quando
le temperature sono ben più rigide. Sarà che mi sono tolto i
vestiti infreddoliti, ma io non sento quasi più freddo. Mi infilo
sotto le coperte e dopo pochi minuti, nonostante senta Cassandra ed
Enza lamentarsi per il freddo, inizio ad avere caldo. Poco alla volta
mi tolgo gli indumenti tecnici e rimetto la maglietta e i calzoncini
del pigiama, un po' più freschi, e torno a letto.
Verso
mezzanotte vengo svegliato da un russatore che raglia nella stanza
accanto alla nostra. Come se non bastasse lo chiamano pure al
telefono svegliando tutti. Ne approfitto per andare in bagno, così
se mi sentono cadere vengono a soccorrermi, o a seppellirmi.
Torcia
alla mano esco sul ballatoio e inizio a scendere sulla scala che
sembra fatta di corda tanto ondeggia. Per poco non casco di sotto un
paio di volte ma alla fine tocco terra.
Alzando
gli occhi al cielo per ringraziare tutti gli dei Pacha Mama, Pacha
Tata e pure i milanesi Pacha Rat e Chapa Rat, nel buio assoluto
scopro che un manto sconfinato di stelle ricopre tutto lo spazio
visibile della volta. Mi sposto meravigliato per vedere meglio lo
spettacolo della natura ed eccola là finalmente, dopo tanti anni
riesco a vedere con i miei occhi una parte della via lattea. Non
contento della visione, durante la notte rischierò la vita un altro
paio di volte sulla scala “mobile” per poterla vedere ancora.
Partirò il 5 ottobre e sto letteralmente divorando il tuo diario. Una lettura più che piacevole, a tratti commovente. Grazie per aver condiviso questa splendida esperienza.
RispondiElimina