mercoledì 13 luglio 2016

Ottavo giorno - Puno – Lago Titicaca – isola Taquile – isola Amantanì






Sveglia alle 6:45 e partenza per la crociera sul lago Titicaca. Prendiamo una barca che ci guiderà sulle acque calme del lago per i prossimi due giorni. La guida ci spiega che il nome Titicaca come lo pronunciamo noi oggi deriva dagli spagnoli, mentre invece la vera pronuncia Inca sarebbe Titihaha, in pratica come la pronuncerebbe un toscano.

Dopo aver sorpassato l'insediamento degli Uros sulle loro isole galleggianti, le visiteremo domani al nostro ritorno, proseguiamo la crociera verso le isole esterne del lago. La prima che visitiamo è Taquile.

Appena sbarchiamo si comprende subito che l'atmosfera è qualcosa di completamente diverso dal Perù che abbiamo visto finora: tutti gli uomini e le donne hanno un particolare costume e la guida ci racconta che se dobbiamo fare foto è meglio chiedere prima. Fino a qualche tempo fa la gente del luogo temeva che venendo immortalati gli veniva rubata l'anima.



Nei pressi nel porto ci sono diversi isolani che stanno lavorando come spaccapietre : gli uomini le rompono e le tagliano mentre le donne, apparentemente anche molto anziane, se le caricano sulle spalle e le trasportano. La guida dice che sono semplici lavori comunali, non sono carcerati.

Saliamo il sentiero che gira attorno all'isola e la guida ci racconta che sull'isola si vive di pesca, agricoltura e turismo. Tutta l'isola è terrazzata per la coltivazione già da tempi pre incaici, ma il raccolto si può fare solo una volta l'anno.

L'abbigliamento è di tipo europeo, ovvero spagnolo dei tempi in cui un ricco signore ispano comprò questa e l'isola Amantanì: pantaloni neri, camicia bianca, piccolo gilet nero e cappello. Questo cambia a seconda dello stato civile: se si è spostati è tutto rosso, scapoli bianco e rosso. Portano anche una grande cintura che una volta sposati gli vengono intessuti e capelli della moglie, così che possa sempre stare a contatto con lui.

Le donne invece hanno una larga gonna nera, camicia bianca e un grande scialle nero con dei "pompones" che pendono ai fianchi: se i pompones sono grandi allora la donna è nubile, altrimenti è sposata. La guida dice che così non si deve neanche chiedere e si fa prima a conoscere le persone interessate.



Mentre gli altri si accomodano in un piccolo ristorante che da sulla piazza centrale dell'isola, io e Cassandra ci defiliamo per consumare le nostre gavette vegane. Nel ristorante, come nei negozi di artigianato che visitiamo, lavorano settimanalmente alcune famiglie che a turno variano le loro mansioni. Nel negozio ci sono le solite cose tipo cappelli, tovaglie e braccialetti, ma hanno un prezzo differente a seconda della qualità. Questo infatti è deciso dal comitato dell'isola che valuta quanto può valere e poi applica la tariffa.



Dopo pranzo scendiamo dall'altra parte dell'isola dove ci attende la barca per portarci alla prossima meta, l'isola Amantanì.

Scendiamo dalla barca e al molo ci attendono i quattro famigliari che ci ospiteranno per la notte. Io, Alba ed Enza, il gruppo vegetariani, veniamo affidati a Carmen, diminutivo di Carmencita. Di età indefinibile, è vestita come tutte le donne dell'isola: grande gonna nera, camicia bianca, sandali e una specie di copertina nera da tenere in testa e con le mani.

Iniziamo ad arrampicarci per i sentieri e subito Carmen, nonostante abbia un passo apparentemente lento, ci distanzia. Siamo sempre a 3800 metri sul livello del mare e io ho gran un mal di testa da soroche.

Dopo aver attraversato qualche campo e scavalcato alcune basse mura di cinta, ci ritroviamo nella sua proprietà. Una piccola casetta rurale con un minuscolo cortile su cui si affacciano le camere al piano di sopra, raggiungibili con una traballante scala di legno.

Mi ricorda un po' la casa di mia nonna sul lago maggiore, a Bee. Roba ormai di trentacinque anni fa.


Conosciamo anche il marito, di cui non capisco il nome e le due figlie, la piccola e bella Mariacielo di due anni e mezzo e la simpatica Irene, credo adolescente.

La camera è piccola il giusto per contenere tre letti, ma non è per niente fredda.

Il bagno, bello moderno e ben piastrellato, è fuori. Il problema è che non è solo fuori della camera, ma addirittura oltre il cortile. Inoltre per raggiungerlo si dovranno scendere le scale. Già mi vedo a notte fonda, in calzoncini, tentare la discesa due o tre volte accompagnato solo dalla luce delle stelle e della torcia. Questo perché non c'è corrente elettrica.



Dopo aver sistemato lo zaino scendiamo per farci accompagnare in piazza, dove la guida ci condurrà ai templi di Pacha Mama che è la madre terra, e Pacha Tata, fratello e marito di quest'ultima. Con una bella camminata di trecento metri di dislivello, da 3800 a 4100, dovremmo raggiungere la cima della montagna, senza ossigeno eh.

Già stare dietro Carmen è stata un impresa, la piazza non era così vicina come si pensava, la salita per la cima dell'isola poi si rivela impegnativa, molto.



L'altitudine si fa sentire così come il mal di testa, così cerco di sopperire masticando un po' di foglie di coca.

Il gusto amaro delle foglie secche attenuano solo leggermente il malessere ma forse non so quanto deve masticarne. Continuo a salire tra una masticata e l'altra ma il fiato è sempre più corto. Il panorama in compenso è bellissimo. Si vede tutta l'isola sotto di noi che è terrazzata per poter coltivale le patate, le fave e qualche pianta di mais.



Proprio quando il mal di testa è insopportabile, intorno ai 4000 metri, la guida ci svela un trucco: ci passa un rametto di muña dicendo di sfregarlo tra le mani, quindi annusare. Di colpo il fiato torna quasi normale e il mal di testa si attenua fino a scomparire. Questo mi permette di arrivare al bivio tra le due cime dell'isola, sulla prima vi è il tempio quadrato di Pacha Tata, sulla seconda, la più alta, c'è il tempio esagonale ma che chiamano tondo, di Pacha Mama, madre terra.

Qui una volta l'anno, a metà gennaio, si riuniscono tutti gli abitanti dell'isola per festeggiare Pacha Mama. Il tempio originale, di origine pre incaica è stato distrutto dagli spagnoli mentre gli abitanti vennero convertiti al cristianesimo. Quando però gli spagnoli sono stati cacciati, allora i templi sono risorti sulle vecchie fondamenta, il che significa che in realtà gli andini non sono stati convertiti del tutto, anzi.

Aspettiamo che il sole scenda a dorare le acque del lago Titicaca, qualcuno si perde in meditazione, Enza sparisce in cerca di un contatto spirituale, qualcuno cerca il punto migliore per fotografare questo paradiso. Man mano che il sole si avvicina alla terra la temperatura cala rapidamente.

Nel giro di pochi minuti ci rimettiamo tutti gli strati che avevamo tolto. Al tramonto io, Cassandra e Daniele iniziamo a scendere e la luce sparisce ancora più rapidamente portandosi via uno alla volta i meravigliosi colori dell'isola. A metà percorso siamo completamente immersi nel buio e dobbiamo usare le torce per illuminare il sentiero, sull'isola le strade non sono illuminate.

Arriviamo prima di tutti gli altri alla piazza e li aspettiamo davanti alla statua del primo sovrano Inca: Manco Capac, padre di Manco pa capa e Manca l'sale, che generarono Manco morto, Manco da casa, Manco li cani, Manca l'acqua, Manca l'aria e Manco fosse Manco Capac.

Assieme a Irene, la figlia di Carmencita, torniamo a casa, sempre nel buio totale. Scendiamo quasi subito a cena, sono le 6:30 (gli isolani seguono un ciclo diverso dal nostro). Il menù prevede una zuppa di spaghettini, verdure e patate con il lime. Tutto accompagnato con acqua bollente e la buonissima tisana di muña. Di secondo riso con verdure e patate saltate. Buoni tutti i piatti, almeno per me. Cassandra rifiuta la zuppa, ovviamente.



Non sono nemmeno le otto quando andiamo a letto, la stanza è piuttosto fredda, ma io sono più preoccupato dalle sortite notturne per raggiungere il bagno, quella scala traballante potrebbe essermi fatale se non ci sto attento. La sento perfino scricchiolare da sola, come se mi chiamasse. L'immaginazione fa brutti scherzi, era Carmencita che saliva per darci la buona notte, delle altre coperte e dulcis in fundo, il vaso da notte. Come se uno di noi tre si dovesse mettere a fare i propri bisogno in camera davanti agli altri. Piuttosto rischio l'osso del collo sulla scala.

Dopo essermi spogliato invece di infilarmi il pigiama indosso maglia e calzoncini tecnici che uso per correre all'aperto in inverno, quando le temperature sono ben più rigide. Sarà che mi sono tolto i vestiti infreddoliti, ma io non sento quasi più freddo. Mi infilo sotto le coperte e dopo pochi minuti, nonostante senta Cassandra ed Enza lamentarsi per il freddo, inizio ad avere caldo. Poco alla volta mi tolgo gli indumenti tecnici e rimetto la maglietta e i calzoncini del pigiama, un po' più freschi, e torno a letto.

Verso mezzanotte vengo svegliato da un russatore che raglia nella stanza accanto alla nostra. Come se non bastasse lo chiamano pure al telefono svegliando tutti. Ne approfitto per andare in bagno, così se mi sentono cadere vengono a soccorrermi, o a seppellirmi.

Torcia alla mano esco sul ballatoio e inizio a scendere sulla scala che sembra fatta di corda tanto ondeggia. Per poco non casco di sotto un paio di volte ma alla fine tocco terra.

Alzando gli occhi al cielo per ringraziare tutti gli dei Pacha Mama, Pacha Tata e pure i milanesi Pacha Rat e Chapa Rat, nel buio assoluto scopro che un manto sconfinato di stelle ricopre tutto lo spazio visibile della volta. Mi sposto meravigliato per vedere meglio lo spettacolo della natura ed eccola là finalmente, dopo tanti anni riesco a vedere con i miei occhi una parte della via lattea. Non contento della visione, durante la notte rischierò la vita un altro paio di volte sulla scala “mobile” per poterla vedere ancora.

1 commento:

  1. Partirò il 5 ottobre e sto letteralmente divorando il tuo diario. Una lettura più che piacevole, a tratti commovente. Grazie per aver condiviso questa splendida esperienza.

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