giovedì 14 luglio 2016

Nono giorno - Amantanì - isole Uros - Puno - Copacabana - La Paz


La nottata è stata faticosa, scale da fare e soprattutto coperte da sollevare e tirare. Erano fisicamente pesanti, tanto che per un mingherlino come me è stata una dura sessione di pesi.
Alle cinque suona la sveglia e la colazione è pronta quindici minuti dopo: pancake, marmellata e muña. Abbiamo giusto il tempo di andare in bagno, anzi nemmeno quello perché subito ci mettiamo in cammino per il porticciolo, cercando di stare dietro a Carmencita. La silenziosa signora, con i suoi sandali, sempre rigorosamente senza calze, sgambetta nel freddo mattino illuminato solo dal bagliore del sole che deve ancora sorgere. Noi, dietro e tutti intabarrati per il freddo, fatichiamo a tenere il suo passo.
Al porto c'è giusto il tempo di scambiare un abbraccio e un sorriso con Carmencita e saltiamo in barca, ammirando un'alba mozzafiato che ci ripaga di tutte le sofferenze notturne patite.

Dopo circa tre ore di navigazione sbarchiamo alle isole Uros, tappa di cui avrei fatto volentieri a meno, mi spiego meglio. Sbarchiamo su un isolotto dove ci accolgono delle donne con un saluto nella lingua aymara. Noi rispondiamo come ci hanno insegnato, le guide quindi le signore ci fanno fare un giro della piccola isola galleggiante mostrandoci l'interno delle loro casette. Ci spiegano che qui vivono ben cinque famiglie e al momento gli uomini sono sul lago a pescare, mentre le donne si occupano di accogliere turisti, creare l'artigianato, cucinare e fare manutenzione dell'isola. Questa è fatta con grossi blocchi di torba galleggiante tenuti assieme da corde di nylon, su cui successivamente vengono adagiati strati e strati di giunchi.

Ci mostrano anche la loro grande barca a forma di babbuccia chiedendoci se vogliamo farvi un giro sul lago, nessuno però è dell'avviso.
Fini qui tutto bene, poi ci mostrano i loro lavori di artigianato e mi si accende il primo campanello d'allarme. I prezzi, già in dollari, mi sembrano altini. I manufatti sono carini e sono tentato di prenderne uno, ma Cassandra ha una premonizione e mi fa cambiare idea, cosa che a molti altri non riesce. 


Proprio mentre stiamo per andarcene viene fatta una domanda alla guida che smonta tutto il castello di carte: a che epoca risalgono le isole Uros? Risposta: al 1986. In pratica prima di allora c'era qualcuno che viveva sulla torba che cresceva attorno alle isole, poi l'innalzamento del livello delle acque del lago ha provocato il distaccamento e conseguente galleggiamento della torba, dando così origine all'idea di ancorare davanti a Puno queste isole.
Inoltre il pilota della barca, tale Lazzaro, ci rivela che ogni sera gli abitanti delle isole saltano in barca e tornano alle loro case sulla terra ferma.
Una bella presa in giro per turisti mi pare.
A saperlo avrei preferito vedere il sito archeologico di Sillustani, a cui abbiamo dovuto rinunciare per mancanza di tempo.
Tornati a Puno ci rechiamo in tutta fretta alla stazione dei Pullman: oggi abbiamo in programma di sconfinare in un'altra nazione, la Bolivia. Purtroppo di questo stato non so praticamente nulla, se non che vi sono stati ammazzati Butch Cassidy ed Ernesto Cheghevara.
Il vecchio torpedone blu che ci accompagna impiegherà circa due ore per fare il giro del lago e portarci al confine. Al vaglio dei passaporti tutto bene tranne che per Cassandra. Il funzionario dell'immigrazione sembra confonderla con una della banda Baader-Meinhof, e solo dopo alcuni accertamenti la lasciano passare. Pesa sulla sua decisione che alla TV accesa lì accanto stava per iniziare una nuova puntata della telenovela boliviana “Los Pioneros".

Arriviamo a Copacabana, omonima boliviana della più famosa brasiliana, che qui sorge sulle rive del lago.
Troviamo quasi subito il minivan che ci porterà alla capitale La Paz, piccolo e appena sufficiente a trasportare quattordici passeggeri, caricando tutte le valigie tetto.
Appena ci incastriamo e la porta viene chiusa togliendoci ogni possibilità di fuga, l'autista ci svela che ci vorranno quattro o cinque ore di viaggio per arrivare a destinazione.
Nel piccolo abitacolo inizia a mancare l'aria, poi il pilota parte e, appena fuori Copacabana, ingrana la quarta e si mette a correre come un pazzo sulle strade di montagna che ci separano dalla capitale.
Dopo circa due ore di brividi arriviamo alla parte più stretta del lago, dove le due sponde sono separate da soli 600 metri. Scendiamo tutti dal minivan e lo guardiamo mentre viene caricato su di una chiatta di legno per attraversare lo stretto. Noi invece lo faremo a bordo di un piccolo barchino a motore per la modica cifra di due boliviani, circa trenta centesimi di euro.
Reimbarcati non siamo minimamente preparati a quello che ci aspetta. Il viaggio verso La Paz è tranquillo finché non arriviamo nei pressi dell'interland: un delirio di strade interrotte per lavori in corso, buche, smog e banchi di polvere fitti come nebbia padana. Ci sono poi bande di cani che presidiano il territorio, pronte a sbranare qualunque tipo di spazzatura possano recuperare.
Sembra di essere finiti in una città dopo un bombardamento o un violento terremoto. In giro non si vedono persone, solo oscuri veicoli e grossi cani. Tutto questo caos è causato dalla costruzione ancora in corso della nuova autostrada. Pare che i committenti abbiano appaltato il progetto agli stessi che stanno seguendo i lavori della Salerno-Reggio Calabria.
Come se non bastasse, quando riusciamo ad uscire dal caos arriviamo e a La Paz, il nostro autista non sa dove sia l'hotel. E' una città molto grande e chiedendo un po' in giro ci arriviamo che sono le dieci di sera, affamati come i cani randagi di prima.
Ciliegina sulla torta: soroche. Oltre ad un mal di testa feroce, ho iniziato a perdere sangue dal naso. Anche se non sono stato l'unico ad avere questo problema, da oggi fino alla fine del viaggio sarò torturato da queste perdite fastidiose, in alcuni casi dolorose. La causa probabilmente è l'aria, oltre ad essere secca, è inquinata e polverosa, specie qui in Bolivia.
Sapendo che saremmo arrivati tardi, l'hotel ha preventivamente chiamato un ristorante per tenere aperto per noi è così riusciamo a cenare. Ci va pure bene sul menù: sopa de chuno, una patata nera molto gustosa, più il buffet di insalate e verdure. Cassandra si butta a piombo su tutto il buffet vegetale che risulta anche buono, seppur freddo.

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