La
nottata è stata un po' movimentata. Anche se i sedili erano spaziosi
e reclinabili, non sono riuscito quasi a dormire. Come se non
bastasse l'autobus è arrivato con quasi un'ora di anticipo e ci ha
scaricato sulle strade gelate di Uyuni, dove le guide con i loro
fuoristrada avrebbero dovuto aspettarci. Ovviamente non c'era
nessuno, così dopo circa venti minuti di attesa veniamo recuperati
da uno dei tanti procacciatori di turisti ghiacciati e portati nella
sua caffetteria per berci qualcosa di caldo. Quando finalmente
arrivano le guide si uniscono a noi per fare colazione e trovo
l'occasione di parlare con Cristina, la cuciniera che ci preparerà
da mangiare per i prossimi tre giorni.
Quando
le dico che io e Cassandra, ma anche Enza, siamo vegetariani, tutte
le guide fanno una faccia strana e una chiede “mangiate pollo?”.
Cristina
lo guarda male come se non si rendesse conto della castroneria che ha
detto, quindi senza perdere tempo nel spiegargli che il pollo è
carne, mi dice:
“Va
bene, se vuoi posso fare piatti con carne cruda!”
Ovviamente
mi prendeva in giro, spero.
Dopo
colazione ci muoviamo solo per pochissima strada, infatti il cimitero
dei treni è proprio appena fuori Uyuni. E' un deserto di ferro e
sabbia, in cui vecchi treni, anche dell'800 sono stati spogliati di
tutto ciò che poteva essere utile e abbandonati ad affondare
lentamente nella sabbia.
L'atmosfera
dell'alba è quasi irreale, i vecchi locomotori, anche se ridotti a
scheletri, sono blocchi di acciaio brunito ancora solidi in grado di
affascinare, nonché di incutere un certo rispetto.
I
binari che si perdono nel nulla del deserto arrivano fino alla costa,
ma in questo paesaggio desolato è difficile credere che siano ancora
usati un giorno alla settimana.
Mi
perdo tra gli antichi locomotori, come se fossi in un negozio di
modellismo, perso nell'irreale sogno di vederli ripartire e risorgere
dalle sabbie.
Troppo
presto vengo svegliato dal mio sogno ad occhi aperti, che come sempre
accade, sembra sia durato un battito di ali.
Veniamo
riportati ad Uyuni e lasciati a girovagare per le strade per almeno
mezz'ora, scelta incomprensibile, assurda. Potevamo starcene tra i
treni invece che vegetare sulle strade ancora assonnate di questa
fredda città.
Quando
risaliamo in auto, io, Cassandra, Roberto, Enza e Vittorio, sentiamo
subito che il nostro autista, Fredi, ha qualcosa che non va. Tossisce
in continuazione ed ha una voce bassissima. E' malato. Allora anche
loro lo sentono il freddo!
In
ogni caso è in grado di guidare e non vuole medicinali, al massimo
qualche caramella per la gola.
Finiamo
a Colchany, un deserto paesino con i soliti negozietti ed un piccolo
museo di sculture fatte con i blocchi di sale del Salar. Dopo
un'altra mezz'ora sprecata a scapito dei treni, riprendiamo posto per
iniziare ad addentrarci nel Salar, questa immensa distesa di sale che
in questo periodo è completamente asciutta. Durante la stagione
delle piogge invece, da Dicembre a Marzo, nella parte più profonda
c'è quasi un metro d'acqua.
Fredi
ci racconta che dal Salar parte la nuova Dakar, solo che la prima
volta che si è tenuta c'era ancora l'acqua sul lago e col calore
delle auto e dei camion, il sale si scioglieva e andava infilarsi nei
motori distruggendoli. Se non ho capito male ora la Dakar fa il giro
tutto attorno al Salar.
Prima
di entrare nella distesa vera e propria ci fermiamo a vedere alcune
pozze colorate, dove l'acqua bolle fino in superficie. Qui il sale
non è proprio bianco, ma striato di grigio e arancione, per cui ci
muoviamo verso il centro del lago.
Più
andiamo avanti e più il bianco aumenta, fino a diventare quasi
accecante. Ero già stato su un lago salato, in Turchia, ma qui la
separazione tra l'azzurro senza nuvole del cielo e il bianco del sale
senza fine, dà l'impressione di essere in prossimità dei confini di
due mondi che laggiù, dove la vista non può arrivare, vanno a
fondersi in un unica cosa.
Dopo diversi minuti di marcia sul sale arriviamo a quello che un tempo era un hotel, fatto tutto con blocchi di sale. Ora è un museo e non ci si può più dormire, ma l'interno è rimasto ancora come quando era funzionante. Le sedie, i letti, i tavoli, tutto è fatto di inamovibili blocchi di sale. Chissà che freddo la notte.
Ci
rimettiamo in marcia e arriviamo all'isola Inkausi, che significa
casa dell'Inca. E' una piccola formazione rocciosa ricoperta da
giganteschi e splendidi cactus che spunta in mezzo al mare di sale.
Giusto il tempo di girarci attorno e il pranzo è pronto: oggi panini
con verdure e palta, almeno per noi vegetariani, gli altri farciscono
il loro anche con salumi e formaggio.
Dopo
mangiato saliamo, lentamente a causa dell'altitudine, sulla cima
dell'isola. Mentre passiamo attraverso i cactus e le rocce, noto che
alcune rocce sembrano avere il guscio. Solo sulla cima mi rendo conto
che ogni cosa qui è stata ricoperta dal corallo. L'isola è un
enorme fossile di corallo, probabilmente risalente a quando qui c'era
il mare che ricopriva tutto.
Dopo
aver esplorato la cima e le grotte ripartiamo verso la destinazione
finale per questa lunga giornata. In circa un ora siamo a
destinazione, un altro hotel di sale, ma che poggia le fondamenta, e
quindi le tubature inquinanti, sulla terra ferma.
A
tutti sembra troppo presto per fermarci, ma siamo in inverno e la
luce scompare in fretta, per cui abbiamo giusto il tempo di
rilassarci con un po' di mate e biscotti, e chi vuole di fare perfino
una doccia calda, a pagamento però.
Per
cena, servita su tavoli e sedie di sale, oltre alla sopa di verdure
che quella Trita di Cassandra rifiuterà come suo solito, la cuoca ci
farà trovare la prima pasta quasi buona. Diciamo che dopo
l'astinenza che stavamo sperimentando non è il caso di sottilizzare,
e difatti non era male. Anche il sugo vegetariano era buono,
leggermente pesante ma buono.
Andiamo
a letto abbastanza presto, ma considerando la scorsa nottata sul
pullman non ci sono obiezioni in merito. Solo Enza e Andrea il
gladiatore tentano una sortita sul salar in cerca di qualche segnale.
Qualcosa vedono, perfino Andrea lo ammette, ma a causa di un gruppo
di cani sono costretti a tornare dentro e così non si saprà mai
cosa hanno visto veramente.
Luci? Non so, io non c'ero.
Luci? Non so, io non c'ero.
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