mercoledì 11 ottobre 2023

Tuzbair

Questa notte ha fatto caldo, alla faccia del fatto che nel deserto di notte fa freddo. Io ho sudato.

Sembrava proprio di stare in America. Ogni tanto riecheggiava il nitrito di un cavallo in lontananza e una volta li ho pure sentiti correre al galoppo.

Per fortuna non sono arrivati gli indiani pellerossa.

Comunque ci siamo sentiti tranquilli, se non fosse che la mattina dopo, camminando nel post colazione abbiamo incontrato una famiglia di kazaki. Si sono fermati appena ci hanno visti e hanno voluto fare una foto con noi. Manco fossimo Brad Pitt e Angelina Jolie.

Gaia era l’unica che li capiva, e ha detto che mentre gli spiegava che abbiamo dormito poco più avanti, il tizio si è stranito e ha chiesto? Qui? Ma non avete visto i lupi?

Lupululà? 

Per fortuna non qua. Il simpatico kazako ha raccontato che la piana che stiamo attraversando, in primavera diventa un lago grandissimo in cui nuotano una marea di tartarughe.

Queste tartarughe poi quando l’acqua si asciuga spariscono e non si sa dove vadano a finire. Difatti non ne abbiamo vista manco mezza, esattamente come i lupi.

Il kazako racconta che tutta questa abbondanza di tartarughe attira le aquile che arrivano in picchiata, le afferrano, le portano in alto, le lasciano cadere sulle rocce per spaccarne il guscio e poi banchettare comodamente.

Uno dei posti preferiti per il lancio della tartaruga pare sia il canyon colorato di Kokala dove secondo lui si possono trovare moltissime ossa di tartaruga.

Salutiamo i kazaki e arrivano le jeep che, con nostra grande sorpresa, ci portano a fare la doccia (vera stavolta!) in una specie di campeggio dove le camere sono delle Yurte.

Non so se fosse previsto, oppure hanno fatto questa deviazione perché puzzavamo troppo, però non obiettiamo.

Ammetto pensavo peggio, nel senso che dopo soli tre giorni credevo di uscirne molto più puzzolente, invece nessuno del gruppo mi sembra abbia manifestato qualche problema di sorta. Personalmente avrei potuto resistere ancora qualche giorno, ma a doccia donata (o meglio, pagata), non si guarda nel sifone.

Ripartiamo e facciamo un bel po' di strada. Oggi dobbiamo raggiungere il lago salato di Tuzbair.

Per arrivarci facciamo un giro lungo dalla strada asfaltata prima scendere sul lago dal bordo a sud. 

Prima ci fermiamo a pranzo sopra il bordo del lago. Scendiamo a fare una camminatina sotto un sole accecante e un vento molto forte, quindi raggiungiamo le jeep in una piccola gola protetta dalle folate.

Dopo pranzo ci dirigiamo verso il fondo del lago.

Lo sterrato in cui ci immergiamo è un mare di sabbia e polvere che facciamo volare al nostro passaggio come nuvole. 

Se piovesse, anche di poco, credo che sarebbe un bel problema solo avvicinarsi al lago, perfino per delle jeep così grandi e attrezzate.


Per fortuna non ci sono nuvole da giorni, il sole splende e asciuga tutto. Possiamo scendere sul tappeto bianco senza problemi. Il fondo è così liscio che ci si potrebbe giocare a bigliardo. Roman però ci dice che non è tutto sale, bensì un misto con gesso.

Le bianchissime scogliere che si affacciano sul lago sono infatti di gesso. La pioggia le sta sciogliendo molto lentamente, formando delle vere opere d’arte per tutta la lunghezza della costa ovest, la più lunga.

Mentre in basso le montagne sono di un bianco accecante, più si sale e più si colora di beige, giallo, marrone. Una tavolozza che contrasta con il perenne azzurro del cielo.

Scendiamo a tastare il terreno e fare qualche foto davanti a quello che ha la forma di un anfiteatro gigantesco e in cui è facile vedere colonne e statue che sembrano scolpite.


Ripartiamo verso il punto dove pianteremo il campo base. Come consuetudine ci fanno scendere un paio di chilometri prima per camminare. Le scogliere di gesso hanno delle forme fantastiche, naturali e armoniche come delle radici di mangrovie che si immergono in acqua. Incredibili.

In lontananza vediamo una persona che da sola cammina tra queste scogliere fotografando. Scopriremo più tardi che si tratta un fotografo francese che ha noleggiato autista e jeep solo per lui e che gira il Mangystau per lavoro. 


Quando ci troviamo al cospetto delle scogliere non possiamo fare a meno di continuare a scattare foto perché sono tutte bellissime e una diversa dall’altra. 

Sfortunatamente non sono un fotografo e non ho la freddezza di cogliere tutto senza rimanere a bocca aperta, mi si ingolfa letteralmente il cervello e non so più cosa scattare e cosa osservare. Mi manca la freddezza.

Tutte queste forme bizzarre e sinuose mi fanno venire in mente delle opere che starebbero bene alla Gnam di Roma.


Ci avviciniamo al campo base sito nei pressi di un enorme arco bianco. A seconda di dove lo si osserva sembra anche una proboscide o il pilastro di un grande tempio. Oppure un grande ponte.

Dopo aver piantato la tenda non abbiamo molto tempo, giusto lavarci e gustarci una birra prima di cena.

A pensarci ora avrei dovuto esplorare meglio quel posto incredibile.

La notte questa volta è stata intensa. Un vento a tratti forte faceva sobbalzare la tenda e il telo della veranda diventava una frusta rumorosa. Solo verso le 23 riesco a risolvere in parte il problema riposizionando il suo picchetto ballerino. Paradossalmente di lì a poco il vento calerà, anche se non del tutto.


Quando mi sveglio la mattina seguente sento qualcuno che sta andando a vedere l’alba sul lago salato. Mi vesto al volo ed esco anche io. Il silenzio e la pace in questi luoghi sono fantastici e allo stesso tempo riposanti. 

La cosa sconvolgente del Mangystau è  nonostante questi posti incredibili, ci siamo solo noi. Sì c’è il fotografo, ma è qui per lavoro, non conta. Noi siamo gli unici altri esseri umani, oltre che turisti.

Sfortunatamente mentre cammino verso il centro del lago mi rendo conto che il sole è già sorto. Aspetto allora che spunti dalle scogliere bianche per vedere una seconda alba, comunque molto bella.


Dopo la solita colazione abbondante ci incamminiamo per smaltire un pochino. Sarà la luce del sole mattutino, oggi le scogliere mi fanno pensare alle radici della montagna che si immergono nel lago salato.

C’è anche una piramide bellissima.


In lontananza vedo anche un abitante del luogo, ovvero un avvoltoio. Procediamo lentamente e sul liscio tappeto salato forse troviamo la prova della nascita delle palle giganti: sparse qua e la vediamo delle biglie, piccole palline di sabbia delle dimensioni di biglie da spiaggia. Saranno così che si sono formate le palle giganti?


Mi piacerebbe poter tornare qui fra migliaia di anni per scoprirlo, chissà in quale altro viaggio sarò impegnato per allora…

Continuo a pensare che sia incredibile che posti così belli siano ancora sconosciuti ai più. Da egoista non posso che essere felice che ci siamo solo noi a beneficiare dello spettacolo.


La camminata di questa mattina è più lunga del solito, ma anche più bella. A tratti sembra di essere sul salar de Uyuni, in altri momenti su una spiaggia lunghissima, in altri ancora la spiaggia diventa fangosa e dobbiamo spostarci verso le montagne per non affondare.

Quando veniamo raccattati lungo la strada ci aspetta una lunga giornata di trasferimento.

Lungo il percorso asfaltato ogni tanto vediamo spuntare dal nulla degli ambulanti con un banchettino.

Sono i venditori Kefir, un prodotto tipico di queste zone: si tratta di una specie di yogurt locale. Un mix di latte di cavallo, capra o cammello fermentato, il che gli può dare una gradazione fino al 3% di alcol.

Denis ci raccomanda di non prenderlo qui in Kazakistan perché, soprattutto quando fa caldo, si rischia l’intossicazione. Meglio aspettare l’Uzbekistan.

Personalmente preferisco evitare del tutto.

Entrando nel discorso culinario si finisce a parlare di piatti tipici. Qui in Kazakistan non c’è un vero piatto ufficiale, però loro dicono che è il Plov.

Già il nome evoca qualcosa di poco appetitoso, si tratta di riso condito e saltato con carne.

Con Gaia scopriamo che effettivamente il Plov è un piatto uzbeko, preso solo in prestito dai Kazaki che non hanno una propria tradizione culinaria.

Dato che viaggeremo tutto il giorno, per pranzo ci fermiamo ad una tavola calda locale e, guarda caso, gli autisti ordinano per tutti il Plov.

Io e Cassandra ovviamente passiamo e a quanto pare abbiamo fatto bene perché gli altri del gruppo non sono rimasti troppo entusiasti dell’esperienza.

Dopo pranzo facciamo scorte di cibo, acqua e birra, quindi riprendiamo il viaggio.

Per spezzare la monotonia del paesaggio attraversiamo giacimenti petroliferi e di gas.

Gaia ci spiega che il giacimento petrolifero che stiamo attraversando è uno dei più grandi del Kazakistan ed è gestito interamente da kazaki, mentre sul mar Caspio ci sono giacimenti gestiti da americani e cinesi dove i kazaki vengono impiegati solo come mano d’opera.

Pare che il petrolio kazako non sia di buona qualità, quindi per renderlo utilizzabile lo devono mischiare con quello russo che è di qualità superiore.

Veniamo a sapere che anche qui in Kazakistan c’era una centrale nucleare chiusa nel 2001 perché aveva esaurito il suo ciclo di vita.

Proseguendo si continua ad indagare sul Kazakistan con Gaia che è un martello e vuole conoscere il più possibile. Qui ci sono principalmente due etnie: i kazaki che parlano kazako e poco russo e i russi che parlano russo e il kazako non lo parlano ma lo capiscono.

In pratica a scuola dovrebbero imparare sia kazako che russo e inglese, ma i russi non hanno molta voglia di imparare il kazako, e viceversa. Questo perché hanno solamente un’ora di lezione a settimana di lingua che non è la propria. Secondo Denis il linguaggio kazako sta sparendo pian piano. Chissà se i kazaki che parlano kazako la pensano così…

Durante il viaggio scopriamo che la nostra meta odierna, che doveva essere Bozhira, è cambiata a causa di un vento molto forte previsto per stasera. Il cambio si rende necessario perché oltre a mettere a dura prova la stabilità delle nostre tende, pare che in quel posto la polvere sollevata dal vento potrebbe dare problemi al motore delle jeep.

Pertanto puntiamo al Tiramisù che comunque è di strada.

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