Questa notte ha fatto caldo,
alla faccia del fatto che nel deserto di notte fa freddo. Io ho sudato.
Sembrava proprio di
stare in America. Ogni tanto riecheggiava il nitrito di un cavallo in
lontananza e una volta li ho pure sentiti correre al galoppo.
Per fortuna non sono
arrivati gli indiani pellerossa.
Comunque ci siamo
sentiti tranquilli, se non fosse che la mattina dopo, camminando nel post
colazione abbiamo incontrato una famiglia di kazaki. Si sono fermati appena ci
hanno visti e hanno voluto fare una foto con noi. Manco fossimo Brad Pitt e
Angelina Jolie.
Gaia era l’unica che li
capiva, e ha detto che mentre gli spiegava che abbiamo dormito poco più avanti,
il tizio si è stranito e ha chiesto? Qui? Ma non avete visto i lupi?
Per fortuna non qua. Il simpatico kazako ha raccontato che la piana che stiamo attraversando, in primavera diventa un lago grandissimo in cui nuotano una marea di tartarughe.
Queste tartarughe poi
quando l’acqua si asciuga spariscono e non si sa dove vadano a finire. Difatti
non ne abbiamo vista manco mezza, esattamente come i lupi.
Il kazako racconta che
tutta questa abbondanza di tartarughe attira le aquile che arrivano in
picchiata, le afferrano, le portano in alto, le lasciano cadere sulle rocce per
spaccarne il guscio e poi banchettare comodamente.
Uno dei posti preferiti
per il lancio della tartaruga pare sia il canyon colorato di Kokala dove
secondo lui si possono trovare moltissime ossa di tartaruga.
Salutiamo i kazaki e
arrivano le jeep che, con nostra grande sorpresa, ci portano a fare la doccia (vera
stavolta!) in una specie di campeggio dove le camere sono delle Yurte.
Non so se fosse
previsto, oppure hanno fatto questa deviazione perché puzzavamo troppo, però
non obiettiamo.
Ammetto pensavo peggio,
nel senso che dopo soli tre giorni credevo di uscirne molto più puzzolente,
invece nessuno del gruppo mi sembra abbia manifestato qualche problema di
sorta. Personalmente avrei potuto resistere ancora qualche giorno, ma a doccia
donata (o meglio, pagata), non si guarda nel sifone.
Ripartiamo e facciamo
un bel po' di strada. Oggi dobbiamo raggiungere il lago salato di Tuzbair.
Per arrivarci facciamo un giro lungo dalla strada asfaltata prima scendere sul lago dal bordo a sud.
Prima ci fermiamo a
pranzo sopra il bordo del lago. Scendiamo a fare una camminatina sotto un sole
accecante e un vento molto forte, quindi raggiungiamo le jeep in una piccola
gola protetta dalle folate.
Dopo pranzo ci dirigiamo verso il fondo del lago.
Lo sterrato in cui ci immergiamo è un mare di sabbia e polvere che facciamo volare al nostro passaggio come nuvole.
Se piovesse, anche di
poco, credo che sarebbe un bel problema solo avvicinarsi al lago, perfino per
delle jeep così grandi e attrezzate.
Per fortuna non ci sono
nuvole da giorni, il sole splende e asciuga tutto. Possiamo scendere sul
tappeto bianco senza problemi. Il fondo è così liscio che ci si potrebbe
giocare a bigliardo. Roman però ci dice che non è tutto sale, bensì un misto con
gesso.
Le bianchissime
scogliere che si affacciano sul lago sono infatti di gesso. La pioggia le sta
sciogliendo molto lentamente, formando delle vere opere d’arte per tutta la
lunghezza della costa ovest, la più lunga.
Mentre in basso le
montagne sono di un bianco accecante, più si sale e più si colora di beige,
giallo, marrone. Una tavolozza che contrasta con il perenne azzurro del cielo.
Scendiamo a tastare il
terreno e fare qualche foto davanti a quello che ha la forma di un anfiteatro
gigantesco e in cui è facile vedere colonne e statue che sembrano scolpite.
Ripartiamo verso il
punto dove pianteremo il campo base. Come consuetudine ci fanno scendere un
paio di chilometri prima per camminare. Le scogliere di gesso hanno delle forme
fantastiche, naturali e armoniche come delle radici di mangrovie che si
immergono in acqua. Incredibili.
In lontananza vediamo una persona che da sola cammina tra queste scogliere fotografando. Scopriremo più tardi che si tratta un fotografo francese che ha noleggiato autista e jeep solo per lui e che gira il Mangystau per lavoro.
Quando ci troviamo al
cospetto delle scogliere non possiamo fare a meno di continuare a scattare foto
perché sono tutte bellissime e una diversa dall’altra.
Sfortunatamente non sono
un fotografo e non ho la freddezza di cogliere tutto senza rimanere a bocca
aperta, mi si ingolfa letteralmente il cervello e non so più cosa scattare e
cosa osservare. Mi manca la freddezza.
Tutte queste forme
bizzarre e sinuose mi fanno venire in mente delle opere che starebbero bene
alla Gnam di Roma.
Dopo aver piantato la
tenda non abbiamo molto tempo, giusto lavarci e gustarci una birra prima di
cena.
A pensarci ora avrei
dovuto esplorare meglio quel posto incredibile.
La notte questa volta è
stata intensa. Un vento a tratti forte faceva sobbalzare la tenda e il telo
della veranda diventava una frusta rumorosa. Solo verso le 23 riesco a
risolvere in parte il problema riposizionando il suo picchetto ballerino.
Paradossalmente di lì a poco il vento calerà, anche se non del tutto.
Quando mi sveglio la
mattina seguente sento qualcuno che sta andando a vedere l’alba sul lago salato.
Mi vesto al volo ed esco anche io. Il silenzio e la pace in questi luoghi sono
fantastici e allo stesso tempo riposanti.
La cosa sconvolgente del Mangystau è nonostante questi posti incredibili, ci siamo solo noi. Sì c’è il fotografo, ma è qui per lavoro, non conta. Noi siamo gli unici altri esseri umani, oltre che turisti.
Sfortunatamente mentre
cammino verso il centro del lago mi rendo conto che il sole è già sorto.
Aspetto allora che spunti dalle scogliere bianche per vedere una seconda alba,
comunque molto bella.
Dopo la solita
colazione abbondante ci incamminiamo per smaltire un pochino. Sarà la luce del
sole mattutino, oggi le scogliere mi fanno pensare alle radici della montagna che
si immergono nel lago salato.
C’è anche una piramide
bellissima.
In lontananza vedo
anche un abitante del luogo, ovvero un avvoltoio. Procediamo lentamente e sul
liscio tappeto salato forse troviamo la prova della nascita delle palle
giganti: sparse qua e la vediamo delle biglie, piccole palline di sabbia delle
dimensioni di biglie da spiaggia. Saranno così che si sono formate le palle
giganti?
Mi piacerebbe poter
tornare qui fra migliaia di anni per scoprirlo, chissà in quale altro viaggio
sarò impegnato per allora…
Continuo a pensare che sia incredibile che posti così belli siano ancora sconosciuti ai più. Da egoista non posso che essere felice che ci siamo solo noi a beneficiare dello spettacolo.
La camminata di questa
mattina è più lunga del solito, ma anche più bella. A tratti sembra di essere
sul salar de Uyuni, in altri momenti su una spiaggia lunghissima, in altri
ancora la spiaggia diventa fangosa e dobbiamo spostarci verso le montagne per
non affondare.
Quando veniamo
raccattati lungo la strada ci aspetta una lunga giornata di trasferimento.
Lungo il percorso asfaltato
ogni tanto vediamo spuntare dal nulla degli ambulanti con un banchettino.
Sono i venditori Kefir,
un prodotto tipico di queste zone: si tratta di una specie di yogurt locale. Un
mix di latte di cavallo, capra o cammello fermentato, il che gli può dare una
gradazione fino al 3% di alcol.
Denis ci raccomanda di
non prenderlo qui in Kazakistan perché, soprattutto quando fa caldo, si rischia
l’intossicazione. Meglio aspettare l’Uzbekistan.
Personalmente
preferisco evitare del tutto.
Entrando nel discorso
culinario si finisce a parlare di piatti tipici. Qui in Kazakistan non c’è un
vero piatto ufficiale, però loro dicono che è il Plov.
Già il nome evoca
qualcosa di poco appetitoso, si tratta di riso condito e saltato con carne.
Con Gaia scopriamo che
effettivamente il Plov è un piatto uzbeko, preso solo in prestito dai Kazaki
che non hanno una propria tradizione culinaria.
Dato che viaggeremo
tutto il giorno, per pranzo ci fermiamo ad una tavola calda locale e, guarda
caso, gli autisti ordinano per tutti il Plov.
Io e Cassandra
ovviamente passiamo e a quanto pare abbiamo fatto bene perché gli altri del
gruppo non sono rimasti troppo entusiasti dell’esperienza.
Dopo pranzo facciamo scorte
di cibo, acqua e birra, quindi riprendiamo il viaggio.
Per spezzare la monotonia
del paesaggio attraversiamo giacimenti petroliferi e di gas.
Gaia ci spiega che il
giacimento petrolifero che stiamo attraversando è uno dei più grandi del
Kazakistan ed è gestito interamente da kazaki, mentre sul mar Caspio ci sono
giacimenti gestiti da americani e cinesi dove i kazaki vengono impiegati solo
come mano d’opera.
Pare che il petrolio
kazako non sia di buona qualità, quindi per renderlo utilizzabile lo devono
mischiare con quello russo che è di qualità superiore.
Veniamo a sapere che
anche qui in Kazakistan c’era una centrale nucleare chiusa nel 2001 perché
aveva esaurito il suo ciclo di vita.
Proseguendo si continua
ad indagare sul Kazakistan con Gaia che è un martello e vuole conoscere il più
possibile. Qui ci sono principalmente due etnie: i kazaki che parlano kazako e
poco russo e i russi che parlano russo e il kazako non lo parlano ma lo
capiscono.
In pratica a scuola
dovrebbero imparare sia kazako che russo e inglese, ma i russi non hanno molta
voglia di imparare il kazako, e viceversa. Questo perché hanno solamente un’ora
di lezione a settimana di lingua che non è la propria. Secondo Denis il
linguaggio kazako sta sparendo pian piano. Chissà se i kazaki che parlano
kazako la pensano così…
Durante il viaggio
scopriamo che la nostra meta odierna, che doveva essere Bozhira, è cambiata a
causa di un vento molto forte previsto per stasera. Il cambio si rende
necessario perché oltre a mettere a dura prova la stabilità delle nostre tende,
pare che in quel posto la polvere sollevata dal vento potrebbe dare problemi al
motore delle jeep.
Pertanto puntiamo al
Tiramisù che comunque è di strada.
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