Dopo colazione e
toilette, parte l’ultimo smontaggio delle tende e ricomposizione delle jeep.
Mettiamo in moto ma non torniamo da dove siamo venuti, bensì proseguiamo tra le
dune sulla spiaggia.
Pochi minuti e il
paesaggio da oasi si appiattisce velocemente per tornare quello delle steppe
kazake.
Pianura a perdita
d’occhio, di un verde appena accennato, qualche cespuglio qua e là. Questo è il
Kazakistan che abbiamo visto. Diventa fin quasi comprensibile che Roman e Denis
si fossero così tanto entusiasmati per il mare con le dune, indifferentemente
che la spiaggia fosse disseminata di rifiuti o meno.
Fa sempre parte del
viaggio cercare di imparare il modo di vedere e vivere dei popoli che
visitiamo. Anche se in apparenza ci sentiamo simili, i concetti e gli ideali
cambiano sempre.
Io vivo a Roma e penso
sempre di essere fortunato perché è una riserva quasi infinita di insegnamenti
tramandati dal passato, un manuale che se imparato e adattato ai nostri tempi
potrebbe essere usato per non ripetere gli errori già commessi. È storia.
Ci vantiamo che i
nostri monumenti siano i più visitati al mondo ogni anno, in realtà i
visitatori sono un’inezia rispetto a tutte le persone che vivono su questo
pianeta.
Intanto che scrivo il
mio viaggio continua, la spiaggia e le dune sono sparite e a cambiare il
panorama compare ogni tanto qualche cavallo al pascolo.
Arriviamo ad un faro
dall’aspetto antico. È stato costruito 80 anni fa, ormai inutilizzato,
sostituito dai satelliti.
La struttura è comunque
ancora molto bella.
La vastità
dell’orizzonte mi riporta a riprendere le riflessioni di prima: forse se tutti
avessero le nostre idee ci sarebbero più problemi. Se veramente tutte le strade
portassero solo a Roma, o Parigi, o Londra, New York sai che noia? Una volta
visti questi pochi posti non ci sarebbe più niente da fare.
Questa deviazione forse
è servita più a noi, non tanto per apprezzare i posti delle fragole dei russi
kazaki, quanto per valorizzare e apprezzare ancora di più ciò che abbiamo visto
in questi pochi giorni, rendendoli dei ricordi indimenticabili.
Toh, un cammello.
Passiamo accanto ad una
struttura recintata dove ci sono anche due vagoni arrugginiti di un treno passeggeri.
Pare che qui ci sia un geiser con una sorgente termale calda, ma i locali hanno
recintato tutto per costruire un centro termale.
La ricerca della strada
per Aktau continua.
Arriviamo ad una
distesa liscia e infinita che in inverno diventa una palude.
È casa loro e Denis è
contento di mostrarci anche questo. Hanno un’aria più felice rispetto ai giorni
in cui eravamo nel deserto. Probabilmente anche perché stanno tornando dalle
loro famiglie. Dal mio punto di vista, che sono venuto qui proprio per le
meraviglie del deserto, è quasi inconcepibile vedere qualcosa di bello in
questa zona, poi mi vengono in mente le parole di Ilaria, archeologa che fa la
guida a Roma: dopo quattro volte consecutive che faccio il Colosseo e il Palatino,
inizio a non poterne più perfino io…
In fondo alla palude
piatta e asciutta, dietro i miraggi, si vedono i comignoli delle fabbriche di
Aktau.
Prima di entrare in
città c’è una bella sorpresa: passiamo in mezzo alla discarica. Tanto per avere
il quadro completo.
Volevi il Kazakistan?
Anche questo è il Kazakistan, mò so kazaki tuoi.
Usciamo finalmente
sull’asfalto e passiamo accanto al resort dei turchi, il Rixos. Gli stessi che
volevano costruire l’hotel dentro Bozhira.
Denis dice che è
talmente caro che nessuno ad Aktau se lo può permettere, anzi, gli costa meno
prendere l’aereo e andare sul mar Rosso.
Da lontano vediamo una
riserva naturale di acqua dolce che viene usata dagli uccelli migratori.
Poi una grande
fabbrica, che in realtà è la struttura che trasforma l’acqua salata in dolce.
Costruita molti anni fa, ormai non è più sufficiente per la città che è
cresciuta fino a 500000 abitanti.
Inoltre il mar Caspio
in questo modo si sta lentamente asciugando e si teme che possa fare la fine
del lago d’Aral, anche se ci vorrà molto più tempo considerando le sue
dimensioni.
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