lunedì 9 ottobre 2023

Mangystau


Sono le sette di mattina quando scendiamo dall’aereo e ritiriamo i bagagli. Subito si sale in auto e si parte senza sosta, senza prepararsi. Chi c’è, c’è, chi ha dormito bene, chi non ha dormito un minuto, come me, si attacca al tram e tira forte.

Le jeep per lo meno sono grandissime e molto comode. Quella su cui prendiamo posto io e Cassandra ha dei vetri  molto oscurati, forse troppo. Capisco subito perché: fuori del finestrino non c’è niente oltre l’orizzonte piatto, solo il sole e filari di pali della luce. Ogni tanto appare qualche sporadica costruzione di un solo piano, a volte dei capannoni, e in lontananza piccoli branchi di cavalli selvatici. Sulla sinistra si intravede la riva del mar Caspio, poi sparisce nella monotonia del paesaggio piatto.

Per ora non fa caldo, è ancora presto. Durante il giorno questi vetri temo serviranno tantissimo.

È questa la steppa? Brulla, arida, sterminata. Sinceramente me la immaginavo più verde, invece qui domina la terra arrida e sabbiosa,  punteggiata dai radi cespugli verdi.

Toh, un cammello.

Come è comoda questa jeep. Mi si chiudono gli occhi, almeno finché non lasciamo la strada asfaltata e prendiamo quella sterrata. Ora comprendo la necessità di usare jeep così grandi. Diciamo che con la mia fidata 500 non riuscirei a fare molta strada prima di rompere tutto e rimanere bloccato.

Le piste sono diverse e quasi parallele tra loro. In questo modo non si accecano l’un l’altra con le nubi di polvere che sollevano.

Prima tappa un piccolo canyon con un laghetto formato dalle forti piogge.


Qui facciamo una veloce colazione quindi si riparte per un’altra strada, ancora più accidentata e lunga. Con la pancia piena, nonostante il caffè, le jeep che ondeggiano sulle buche si trasformano in grandi culle... questa volta ci addormentiamo.


Veniamo svegliati quando la culla delle buche si interrompe poco prima di pranzo. Siamo arrivati ad una piccola necropoli con tre strutture più grandi, la più antica ha circa mille anni, e diverse tombe disseminate qua e là. Dovrebbero essere state utilizzate dai popoli nomadi che transitavano da queste lande.

Poi Denis e Roman ci portano a vedere una moschea sotterranea, praticamente dispersa nel nulla e anche difficile da trovare se non la si conosce. Probabilmente anche questa creata dai nomadi che transitavano e ogni tanto viene ancora usata. Mentre stiamo uscendo infatti arrivano due camionisti a vederla e a pregare. Non è molto grande per cui facciamo in fretta a visitarla, quindi raggiungiamo le Jeep dove gli autisti hanno già preparato il pranzo.

Siamo affacciati proprio davanti ad un canyon grandissimo che sembra essere sprofondato davanti alle rive del mar Caspio.

Un silenzio ammaliante e affascinante ci rapisce.

Denis, il nostro autista, racconta che nel mar Caspio pescano lo storione per il caviale rosso e poi indica una lingua di terra che affiora dal mare. È l’isola dei pesci gatto, o dei gattopesce, Denis non parla molto bene inglese e io sono ancora mezzo rinco dal sonno.


Riprendiamo il viaggio sonnolento fino a quando arriviamo ad un’altra moschea, stavolta rupestre. Sembra sia stata creata all’interno di una scogliera, e non si fa fatica ad immaginare che non molto tempo fa qui c’era il mare.

Ora è molto più caldo per cui siamo ben contenti di tornare al fresco delle Jeep, che ci portano verso un canyon bellissimo visto dall’alto.

Dopo una bella scarica di foto riprendiamo la strada e scendiamo giù, alla ricerca di un posto dove iniziare l’esperienza del campeggio.

Prima di arrivare incrociamo un branco di cammelli, praticamente tutti marchiati. A quanto pare la gente del luogo li alleva per il latte e la carne. Se li mangiano!

Mah.

In pratica per i kazaki sono come delle mucche con le gobbe.

Il sole inizia a farsi basso e noi ci infiliamo in una gola che mi ricorda un pochino quella di Trinità. Ci fermiamo in una zona molto appartata dove c’è uno spiazzo per poter piantare le tende. In fondo un’area alberata che potrà servire da porta/separé per la toilette.

Ci consegnano la tenda e ci mostrano come si monta. Rispetto a quelle che avevamo utilizzato nel safari australe sono decisamente più grandi e facili da mettere in piedi. La parte più complicata, come sempre, è quella dei picchetti che sono piccoli e troppo fragili. Per fortuna ci sono anche dei grandi chiodi di plastica dura che fanno molto bene il loro lavoro.

In men che non si dica il campo è piantato e così abbiamo il tempo di prendere possesso della “camera”, fare la “doccia” e andare in “bagno”.

Inizia qui il viaggio nel viaggio, alla scoperta dell’igiene personale creativa.

In pratica sia per lavarci che per andare in bagno ci dovremo inventare qualcosa, soprattutto perché il campo sarà come quella casa molto carina,

senza soffitto,

senza cucina,

non si poteva fare pipì,

perché non c’era il vasino lì,

E se non c’era il vasino lì,

non c’era manco il bidet là!

Sono passati molti anni da quando è uscito il film “Il tè nel deserto” e in questo viaggio, anche se non ci sarà John Malkovich, verrà affrontata la scottante tematica de “Il bidet nel deserto”, il controverso seguito mai uscito nelle sale cinematografiche.

Per affrontare questa piccola impresa, dietro suggerimento della  stupenda capogruppo Maria, oltre alle utilissime salviettine umidificate, ho cercato un catino pieghevole da usare come bidet. Purtroppo non avevo molto spazio in valigia e così ho dovuto improvvisare: invece di un catino pieghevole che non trovavo delle giuste dimensioni e prezzo, ho recuperato una di quelle ciotole pieghevoli che si usano per fare bere i cani quando si va in giro.

Un po' titubante mi accingo a varcare la soglia del mondo della creatività igienica, ma devo dire che il primo approccio ha creato problemi: alla fine le salviettine umidificate si rivelano molto più efficaci. In realtà la parte più complicata è stata quella di trovare una zona appartata quando la toilette ufficiale era occupata.

Una volta che ci siamo lavati tutti e abbiamo arredato le tende, propongo di andare a fare un giro esplorativo della gola, giusto per farci venire fame prima di cena. 

Ormai le forze, a causa della prolungata mancanza di sonno, iniziano a scarseggiare. Riusciamo a fare solo qualche centinaio di metri, giusto il tempo di vedere qualche strana roccia e un’aquila volteggiare sopra le nostre teste, torniamo indietro per cenare e prepararci alla prima notte.

Dopo aver mangiato sotto la grande tenda di Denis e Roman, si forma la coda per il bagno. Poi tutti scompaiono velocemente in tenda. Quando arriva il mio turno mi accorgo di essere rimasto da solo sotto il cielo stellato.

Sento già qualcuno che russa.

Anche se ho sonno faccio sempre fatica ad ammettere con me stesso che devo dormire, così ne approfitto per tentare di fare qualche foto stellare. Sfortunatamente è troppo presto e il cielo ancora troppo illuminato.

Forse è meglio andare a dormire.


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