Che brutta parola Lockdown, non mi è mai piaciuta. Per fortuna è finita e, speriamo non torni. Già da qualche mese siamo liberi di uscire, ma definirlo un periodo post lockdown mi sembra anche più brutto e inappropriato. Ci vuole qualcosa di diverso.
Inizialmente avevo pensato di chiamarlo “Hanno aperto le
gabbie" oppure "Welcome to the jungle” come mi veniva da dire le
prime volte che uscivo e trovavo una marea di gente che passeggiava. Non ci ero
più abituato. Effettivamente non suonava molto bene, così ho pensato anche a
“Liberate i cani!!!”, ma anche questo non è il massimo... Il più politically
correct forse è semplicemente il contrario di quello che c’era prima, e quindi
il contrario di lockdown che è unlockup, ovvero bloccare e sbloccare.
Il lockdown è stato un periodo strano, brutto per tutti.
Personalmente ho combinato poco di quello che pensavo avrei potuto
fare in caso di pandemia o invasione zombie. Suonerà strano, ma da quando vivo
a Roma ogni tanto mi sono trovato a pensare a queste due eventualità. Forse
erano pensieri dettati dal fatto di aver cambiato vita in modo radicale, o
forse era un’idea nata solo per le scorte dell’ottava armata che Cassandra è
solita stipare in tutta la casa. Effettivamente avremmo potuto sopravvivere con
esse per tutto il lockdown senza mai dover uscire di casa. Avremmo.
Nelle mie fantasie apocalittiche avevo anche immaginato che con
così tanto tempo a disposizione mi sarei messo a scrivere chissà quanti
romanzi. La realtà è stata molto differente e in fin dei conti ho scritto
veramente poco. In parte è stata colpa del fatto che stavo lavorando a due
libri contemporaneamente e la cosa mi rallentava. Mentre stavo scrivendo per
una storia infatti, mi veniva in mente un’idea per l’altra, e così e mi toccava
fermarmi, buttare giù l’idea per non farla evaporare, quindi riprendere da dove
avevo interrotto.
Forse però è stato lo shock del cambiamento a frenarmi.
Per me tutto è iniziato due giorni prima della scoperta del
focolaio di Codogno. Il 19 febbraio mio nonno Gino detto “Baraonda” ci ha
lasciato.
Tornato a Milano per il funerale, il caso vuole che il giorno
successivo, venerdì 21, ci fosse un evento aziendale.
La mattina del 21 febbraio arrivai in ufficio, dove ho rivisto con
piacere i miei colleghi e ritrovato per la prima volta dopo cinque anni un
volto amico. Mario si era infatti licenziato ed era andato in Brasile a fare il
gelataio, aveva anche comprato casa e trovato una compagna. Tornato in Italia
nemmeno da un mese, sono andato dritto da lui a salutarlo anche perché, se devo
essere sincero, non pensavo lo avrei più rivisto dopo che si era dimesso.
Proprio mentre gli stringo la mano inizio a sentire voci su un
possibile caso di Covid proveniente da Codogno.
Mario è di Codogno.
Quando le voci si intensificarono ipotizzando una fantomatica zona
rossa, Mario torna a casa senza salutare. Nessuno se l’è presa per questo.
Ero tranquillo, Mario stava bene, figurati se mi ha contagiato.
Poi durante il giorno le voci sono aumentate e un altro collega, di Lodi,
scopre altre notizie sul “paziente uno”. Il lodigiano era stato ad una gara
podistica dove anche il “paziente uno” aveva partecipato.
Premetto che Mario non si è mai ammalato, ma quando sono tornato a
Roma mi hanno subito messo in quarantena facendomi così lavorare in smart
working.
"Sono solo tre settimane, forse poche, ma va bene così, non
si può avere tutto. Avrò più tempo per uscire ad allenarmi."
Sfortunatamente allo scadere delle tre settimane è iniziato il
vero lockdown.
Come dicevo, ho lavorato poco ai libri, specie se si considera
tutto il tempo che avevo a disposizione.
Che cosa hai fatto allora?
Riordinato casa.
Cassandra è stata presa dalla furia della dea dell’ordine e così
abbiamo passato buona parte del nostro tempo libero, (non abbiamo TV), a
setacciare la casa in cerca di cianfrusaglie, oggetti o vestiti fuori posto.
Non potevo immaginare che in una piccola casa di cinquanta metri quadri ci
fosse così tanta roba inutile.
Il resto del tempo è stato impiegato per cercare di capire tramite
internet cosa stesse succedendo fuori.
Dato che la mia connessione internet a casa faceva schifo, per
lavorare dovevo andare dai genitori di Cassandra, Priamo ed Ecuba. Anche se era
per lavoro, dovevo farmi un paio di chilometri al giorno in auto. Inevitabilmente
è scattata l'ansia da autocertificazione. Ogni volta che usciva un nuovo
decreto dovevo stampare quattro autocertificazioni, così alla fine avevo un
blocco di autocertificazioni pronte all’uso, che però non ho mai usato. Nessuno
mi ha mai fermato.
Il peggio però doveva ancora arrivare per me. All’inizio del
lockdown si poteva ancora uscire per svolgere attività fisica, ma sono riuscito
comunque a correre pochissimo e ho imparato una cosa: il tiro al piattello non
fa per me, soprattutto se nei panni del piattello ci sono io.
Appena uscivo di casa per correre, sempre ad orari tardi, con il
buio che poteva iniziare a coprire la presenza dei runner, la prima cosa che
sentivo era:
Pool!
La caccia era aperta, venivo bersagliato di insulti e, in alcuni
casi, da oggetti contundenti. Per fortuna “gli sportivi” avevano bisogno di
molta pratica per centrare il bersaglio, ma io non ho voluto dargli questa
possibilità ed ho deciso di ritirarmi definitivamente in casa.
Mi sono dato allora agli esercizi a corpo libero, e dopo due
settimane non ne potevo più.
Come i matti di cui si vedevano i filmati su whatsapp, e di cui ho
riso anche io, mi sono messo a correre in casa… Una cosa quasi impossibile e
con risultati pressoché inutili, sebbene dopo quaranta minuti di corsa,
nonostante uno strano dolore alle ginocchia, mi sentissi un pochino meglio. Non
era un vero allenamento, anzi, ma almeno l’appuntamento serale dava
quell’illusione di normalità che ero solito rispettare, soprattutto quando ero
in preparazione per la maratona, cosa che quest’anno non avrei potuto fare. Per
fortuna ho degli amici runner molto smart. Il giorno in cui ci sarebbe dovuta
essere la maratona di Roma, il gruppo G6 ha organizzato una maratona virtuale a
staffetta, la MartHome: ognuno di noi doveva correre almeno due chilometri in
casa e possibilmente in diretta internet su Zoom. Sfruttando anche il terrazzo,
e aprendo una porta finestra che non pensavo si potesse aprire, ne è uscito un
bel circuito di circa venti metri. Agitato ed emozionato come prima di una gara
mi sono allora vestito da runner, ho stampato il pettorale della MaratHome con
il mio numero di pettorale 1000 applicandolo alla maglietta e, supportato da
Cassandra che ha ripreso l'evento, sono partito. Mi sono anche divertito, ma da
lì ho capito che dovevo fare qualcosa di più se volevo uscirne ancora sano di
mente.
Mi sono messo alla ricerca di un tapis roulant che potessi
ordinare e farmi arrivare a casa. Ovviamente ci avevano pensato molte altre
persone prima di me. Tutte le scorte erano esaurite e il sito di Decathlon
terminava la possibilità di acquisto per ogni giorno in meno di cinque minuti.
Solo a partire dalla mezzanotte infatti si poteva ordinare sul sito. Peccato
che ogni volta il sito era talmente intasato che quando mi appariva la pagina,
gli acquisti erano già esauriti.
Per due o tre settimane sono stato concentrato su come riuscire a
recuperare un tapis roulant, poi il padre di Cassandra, Priamo, mi dice: “Mi
pare che in catacomba ci sia un tapis roulant”.
Sapevo che c’era una piccola palestra nella cantina del loro
palazzo, ma non del tapis roulant.
Mi precipitai nelle catacombe dove ho trovato un’intera palestra
amatoriale pronta per essere spolverata da due dita di polvere. C’erano anche
un vecchio tapis roulant ed una cyclette. Erano vecchi attrezzi rotti che non
avevano più il computer di gestione, ma in quella situazione potevano ancora
essere usati.
Il tappeto era solo a spinta, non c’era il motore e non ci si
poteva correre, solo camminare come se si fosse in montagna, ma l’ho usato lo
stesso, a volte per quasi un’ora al giorno. Essendo molto faticoso, mi sono
diviso tra il tappeto e la cyclette, poi col tempo ho usato di più la cyclette,
decisamente più comoda.
Ho trascorso tutto il resto del lockdown rinchiuso in questa
palestra-cantina ad allenarmi in attesa di trovare uno spiraglio informatico
che mi facesse penetrare le difese del sito Decathlon.
Purtroppo il tappeto sono riuscito ad ordinarlo solo alla fine del
lockdown, quando era già possibile uscire di casa per recarsi in negozio a fare
il ritiro degli acquisti on-line.
Quando accadde l’evento, mi recai assieme a Cassandra a prenderlo,
ma al momento del ritiro, in attesa della scatola, la profetessa ne ha sparata
una delle sue: “Sei sicuro che sto coso ci sta in auto?”.
"Certo che ci sta, ho caricato delle librerie ben più lunghe
senza problemi."
Il tappeto non ci stava. La mia macchina era troppo piccola per la
scatola.
Stavamo quasi per andarcene per recuperare il carro reale di
Priamo, quando Cassandra ha lanciato un altro dei suoi anatemi: “Non sarebbe
possibile farselo spedire a casa? Tenervelo in negozio non credo sia utile per
nessuno, chissà cosa ne penserebbero gli Dei”. Spaventati da questa
possibilità, i gentilissimi ragazzi di Decathlon ci proposero la consegna,
dovevamo solo avere la pazienza di aspettare qualche altro giorno.
Come ad un vincitore del superenalotto a cui viene sottratta la
schedina vincente per la verifica notarile, ho accettato a malincuore.
Pochi giorni dopo il tappeto era in consegna. Purtroppo la mia via
era stata chiusa per essere asfaltata proprio quella mattina. Io e Cassandra
allora siamo dovuti correre dietro il camion e farcelo lasciare in strada così
com’era. Dato che a mano era impossibile trasportarlo, lo abbiamo caricato sull’auto e per
duecento metri siamo andati in retromarcia e con il portellone aperto, dove
finalmente abbiamo scaricato l’oggetto dei miei sogni e incubi degli ultimi
mesi.
Acquisto inutile? Non credo proprio. Il lockdown era finito, ma
quando provai ad uscire per correre scoprii che avevano veramente aperto le
gabbie: in barba al decreto anti-assembramenti, tutti i luoghi dove ero solito
allenarmi, quasi desolati per la mancanza di presenze umane, erano stati invasi
da sciami di persone.
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