Un po’ fuori Roma, su una collina oltre Colle Ferro, dove arriva
l’antica via Prenestina, c’è Palestrina. Più volte avevamo tentato di andare a
visitarla per vedere il palazzo Barberini che sorge sui resti dell’antico
tempio della dea Fortuna Primigenia, con le sue scalinate che scendono verso
l’abitato.
Stavolta ci riusciamo proprio grazie all’Asino d’Oro, che in
questi tempi di post Covid ha allargato il proprio raggio d’azione fuori della
città eterna.
Per prima cosa visitiamo i resti del santuario delle Fortuna Primigenia,
uno dei più antichi, forse il più antico dedicato a questo tipo di divinità.
Con le sue grandi terrazze mi ricorda un po' l’Asklepion di Kos.
Quindi entriamo a vedere il museo, che nonostante le chiusure di
alcune ali per il Covid, si rivela grande e ricco. Tra le cose che più
colpiscono, c’è la sala con il grande mosaico colorato raffigurante scene di
vita sul Nilo.
Scene in certi punti molto fantasiose, e forse proprio per
questo il mosaico è ancora più eccezionale e bello.
Il posto merita, ma purtroppo l’abbiamo vissuto un pochino male
per il discorso del Covid.
Il personale del museo infatti ci segue a vista in
ogni sala come se fossimo degli elefanti in un negozio di cristallo, pronti a
redarguirci se fossimo affollati o soffermati troppo.
Alla fine la visita ci porta via tutta la mattina, quindi ci
spostiamo verso la prossima meta, le Grotte dell’Arco di Bellegra.
Prima però ci fermiamo in un paio di borghi lungo la strada. Il
primo è Cave, di cui non conosciamo nulla. Attirati da alcuni cartelli che
promettono meraviglie storiche, parcheggiamo e ci mettiamo a passeggiare per le
vie del centro. Delusione, forse sfortuna, fatto sta che da dove parcheggiamo
camminiamo per mezz’ora senza incontrare nulla che sia degno di nota, così
riprendiamo la strada verso le grotte.
Non ancora soddisfatti della cantonata presa poco prima, ci
imbattiamo in Olevano Romano e ritentiamo la fortuna. Stavolta va meglio: il
borgo sembra molto più carino e caratteristico. Arriviamo fino alla sommità del
paese, dove i resti di una rocca dominano la valle in lungo e in largo.
Il tempo però inizia ad essere poco, così salutiamo Olevano (omettono,
insomma decidete!) e in pochi minuti siamo a Bellegra, più precisamente alle Grotte
dell’Arco.
Il gruppo che troviamo in attesa della visita è abbastanza
variegato. Fa molto caldo ma appena ci addentriamo nell’ingresso delle grotte
dove indossiamo gli stivali e il caschetto con la luce, la temperatura scende a
livelli umani. Prevedendo il peggio iniziamo a coprirci. Le possibilità di visita,
da prenotare con un po’ di anticipo, sono tre: il percorso turistico che non
necessita l’uso degli stivali perché si cammina su delle passerelle e dura
circa 40 minuti, quello speleo turistico che però si può fare solo con le
galosce perché si camminerà dentro un torrente, durata 2 ore circa. Infine ci
sarebbe il percorso speleologico vero e proprio, ma in questo caso credo ci vuole
una certa preparazione fisica e un po’ di esperienza, nonché guanti e tuta ad hoc perché c’è da fare
qualche movimento con le mani per aiutarsi nei passaggi più angusti.
Noi optiamo per lo speleo turistico e ne siamo soddisfatti. La
prima parte è molto scolastica e la guida cerca di fare il simpatico per
coinvolgere tutto il gruppo, forse perché la speleologia non riscuote spesso
l’apprezzamento dei turisti. Personalmente è un’attività che mi è sempre
piaciuta. Già da bambino sono stato più volte in gita scolastica alle Grotte di
Toirano.
Nella prima parte siamo accompagnati anche dai partecipanti del
percorso turistico. Ci imbattiamo quasi subito nei disegni preistorici degli
uomini che vissero qui migliaia di anni fa. Siamo ancora abbastanza vicini
all’uscita, ma qui si fermano i segni di presenza umana che non sembra si sia
addentrata oltre nella montagna.
Sergio, la guida, tiene più volte a dirci spiegandolo nei modi
più disparati, che questa è l’unica grotta carsica visitabile del Lazio. Per
carsica si intende una grotta dove prima c’era acqua, per cui non poteva essere
abitata.
Camminiamo in mezzo a stalattiti e stalagmiti di ogni età, da
qualche centinaio di anni a qualche centinaia di migliaia di anni. Sergio
spiega come si formano, da trasparenti cannucce che poi si riempiono e
diventano la base su cui si crea tutta la struttura. Sono vive finché l’acqua
le fa crescere, altrimenti, quando l’acqua smette di scendere su di loro, si
dice che siano morte. Anche se si parla di pietra, in realtà un fondo di vita
latente c’è: su di essa ci sono batteri vivi che grazie all’acqua e la
pochissima luce che filtra dell’ingresso riescono a sopravvivere.
Addentrandoci sempre più, arriviamo alla fine delle passerelle,
dove i turisti ci salutano. Il fresco ora è diventato freddo, ma camminando
riusciamo ancora a scaldarci. Il problema sono i sassi. Infatti le calosce
mantengono i piedi asciutti anche quando entriamo nei torrenti, ma non
proteggono dai sassi che distruggono la pianta del piede. Qui ci vorrebbero
delle calosce con la suola in vibram.
Man mano che proseguiamo nella montagna le volte sopra di noi diventano
sempre più grandi e ampie.
Vedo Sergio, che non smette di parlare un solo attimo, sempre
con lo sguardo per aria. Sta cercando qualcosa.
In questa grotta infatti vivono dei pipistrelli unici al mondo.
Un po’ spaventati guardiamo attorno anche noi, ma ci rassicura
dicendo che ora stanno dormendo, si sveglieranno fra poco, dopo che ce ne
saremo andati dalla grotta. Se siamo fortunati riusciremo a vederli.
Questa specie così particolare ha un nome un po’ bizzarro,
Miniopterus, che scritto così suona in modo scientifico. Ma Sergio non lo
pronuncia così. Lui li chiama Mignottèra.
Solo Cassandra afferra la battuta, ed è la fine.
Inizia a ridere senza soluzione di continuità. Per fortuna ha la
mascherina e probabilmente non se ne accorge nessuno. Io però sono lì accanto e
quando capisco il motivo delle risate di Cassandra non riesco più a trattenermi
neanche io... vengo inesorabilmente trascinato nel suo magico mondo esilarante.
Purtroppo anche Sergio se ne accorge e da buona guida turistica
rincara la dose quando ci racconta che le grotte vengono chiuse per tre mesi
all’anno proprio a causa dei pipistrelli.
Un turista prova a ipotizzare “Perché? Vanno in letargo?"
“Ma de che? Sti figli de
na Mignottera non vanno letteralmente in ibernazione, e così noi non li
possiamo disturbà, perché se anche solo provassimo a sfiorarli, quelli ce
cascano stecchiti come na pera marcia”.
Porca mignottera.
Un po’ storditi ma
divertiti, proseguiamo verso un’altra grandissima sala dove nel mezzo c’è un
grosso blocco di pietra e sabbia. Sergio ci racconta che dentro quel blocco
sono stati trovati i resti 13 orsi preistorici e, probabilmente, ce ne
potrebbero essere degli altri, ma gli scavi sono stati interrotti, anche perché
dopo tredici orsi… Avranno detto: Sai che c’è?
Come quando apri delle
bustine di figurine e trovi tredici volte di seguito lo stesso calciatore. Per
finire l’album provi almeno a cambiare edicola…
Proseguiamo verso l’ultima grande sala dove la guida tenta
l’esperimento del buio assoluto. Purtroppo ci sono dei bambini nel gruppo e
l’esperimento dopo qualche minuto di buio e silenzio fallisce. In ogni caso io
mi aspettavo di vedere brillare le pareti della caverna grazie alla luce
prodotta da creature e funghi alieni, ma non c’era nulla di tutto ciò, solo buio.
Proseguiamo ancora un pochino, infilandoci in un percorso che
diventa sempre più stretto e difficile. A poco più di ottocento metri
dall’ingresso della grotta, siamo infatti arrivati alla fine del percorso
speleo turistico, da qui inizierebbe quello speleologico, ma in questo gruppo
non c’è nessuno che si è prenotato per questo, così torniamo tutti indietro,
stavolta volgendo sempre lo sguardo verso l’alto, alla ricerca di qualche
chirottero dormiglione.
Purtroppo arriveremo fino alla fine senza vederne uno, sti figli
de ‘na minioptera…