domenica 25 ottobre 2020

Narni – Stifone

 

Per Narni? Ah, di là. Ultimo week end prima della fine dell’estate, ultima occasione per vedere qualcosa di bello cercando di sfuggire al caldo.

Stavolta ci dirigiamo verso Narni, un piccolo centro a poco più di un’ora da Roma, che nonostante le dimensioni, nasconde un bel po' di storia, sia fantastica che reale.

Luogo che ha ispirato le “Cronache di Narnia”, si trova su un’altura, alla base della quale scorre il fiume Nera, una volta navigabile fino a Roma. Nata come città dell’antica Roma, nel medio evo fu la base del Cardinale Albornoz per il consolidamento dello stato Papale, costruendo una serie di fortezze lungo il territorio che delimitarono i possedimenti della chiesa. La rocca di Albornoz fu una delle prime.

La nostra visita però inizia dal centro storico. La cattedrale è la prima che incontriamo e non possiamo fare a meno di entrare a vederla. La città sembra fatta quasi tutta di pietra, almeno in centro, e regala certi scorci davvero pittoreschi, per non parlare di alcune chiese. Ce n’è una in particolare, piccola ma carina, eretta sopra l’antico tempio di Bacco.

Girovaghiamo finché non troviamo il museo, anche questo piccolo, ma molto bello. Da visitare assolutamente.

Prima di pranzo andiamo a vedere se riusciamo a fare la visita di “Narni Sotterranea”, ma scopriamo che c’era bisogno di prenotare e non ci sono posti liberi per la giornata di oggi. Ci sfoghiamo sul panino e riprendiamo l’esplorazione del borgo, poi andiamo verso la Rocca, per la quale vale lo stesso biglietto del museo.

Non è vicinissima dal centro, circa mezz’ora di strada a piedi, e anche se da lontano non rende l’idea, una volta ai suoi piedi dobbiamo riconoscere che è davvero grande.

Purtroppo, come spesso capita con queste costruzioni medievali, al suo interno non è rimasto nulla di originale. Gli ambienti sono stati arredati in modo da rendere l’idea di come doveva essere la vita al suo interno, ma l’effetto non è proprio quello sperato.

Quando usciamo sembra che il tempo stia per guastarsi, così torniamo velocemente alla macchina per andare alla ricerca del ponte di Augusto. Poco sotto la città ci sono i resti dell’imponente ponte che sovrastava il fiume Nera e fatto costruire dall’imperatore Augusto.

In parte ancora in piedi, sul fondo della valle giacciono dei resti giganteschi e apparentemente mai toccati da quando sono finiti lì. Probabilmente la loro ciclopica dimensione spiega ciò, ma sembra inoltre che la disposizione di questi ruderi abbia ispirato così tanti artisti del passato che sarebbe stato un peccato intaccarne la loro composizione artistica.

Effettivamente sono uno spettacolo da fotografare.

Parlando di romani e del fiume Nera, ci dirigiamo verso Stifone, un piccolissimo borgo a pochi chilometri dal ponte, raggiungibile anche da una bella ciclabile. Si tratta di un piccolissimo borgo che sorge sulle rive del Nera, presso cui sono stati recentemente trovati i resti del cantiere navale dell’antica Roma.

Una visita è d’obbligo, anche per il colore smeraldino che le acque prendono dal fondo e dalle foreste che circondano in fiume.

Terminiamo qui il nostro viaggio senza viaggio, almeno per questa estate, nella speranza di poter riprendere a viaggiare come prima, anche se pure così non è male.

venerdì 23 ottobre 2020

Monte Livata - Campo dell’Osso - Monte Autore - Santuario della Santissima Trinità

 

Fino ad oggi ignoravo proprio l’esistenza di questa montagna. Relativamente vicino a Roma, circa un’ora di macchina. A giudicare dal gran numero di auto che fanno la nostra stessa strada, sembra sia un posto molto conosciuto, soprattutto dai romani. Quando ci arriviamo infatti c’è un grande cartello che dà il benvenuto alla “montagna di Roma”.

Preoccupati di essere finiti in un altro luogo affollato come gli Altipiani di Arcinazzo, andiamo avanti sperando che la maggior parte della gente abbia già parcheggiato. Giunti a Campo dell’Osso ci rendiamo conte che non è così.

Gli spazi però sono molto ampi e non sembra si corra il rischio di imbatterci in molte altre persone. La maggior parte pascola nei prati preparando il barbecue, giocando a pallone o pallavolo. Noi però siamo qui per camminare e questo faremo. Troviamo quasi subito il sentiero che si allontana dalla strada infilandosi nel bosco. Passeggiamo quasi sempre all’ombra, su erba e sentiero, molto bello e rilassante. Non fa caldo, siamo a circa 1500 metri d’altezza, anche salendo non suderemo mai tanto.

In un’ora circa arriviamo a “Le vedute”, un luogo panoramico sulla valle sottostante, quindi imbocchiamo la salita verso il Monte Autore, a poco più di 1800 metri. Una bella camminatina, ma ancora non siamo soddisfatti. Se scendiamo infatti, potremmo arrivare fino al santuario della Santissima Trinità. Sulla discesa ci fermiamo ad una fonte a mangiare il nostro panino, poi continuiamo a scendere all’ombra di una bella faggeta.


A poco più di un chilometro dalla destinazione, la strada si fa molto più ripida. Ci metteremo più del previsto a fare quel breve tratto. In totale un’ora dalla cima del Monte Autore. Chissà che sudata al ritorno…

L’arrivo al santuario è strano: sbuchiamo infatti sotto una grande parete a strapiombo, in mezzo ad un corridoio di bancarelle che vendono ogni genere di cianfrusaglia. Se penso che da bambino anche io ero attratto da quel genere di bancarelle, mi vengono i brividi.

Quando poi arriviamo al santuario, beh, che dire? Non ne rimaniamo impressionati positivamente. Le chiesette incastonate nella montagna sono carine, ma da tutto il resto che c’è attorno e di cui non voglio fare descrizioni, si ha la netta sensazione che oltre al santuario ci sia una bella struttura per fare soldi…

Un po’ disorientati torniamo nel tunnel delle bancarelle, prendo un caffè rigenerante, ed iniziamo la grande risalita che temiamo tanto.

Poco dopo l’inizio della scalata però attacco la musica dal cellulare, tanto ci siamo solo io e Cassandra. Grazie alla musica la salita la facciamo in un batter d’occhio e io in parte la faccio ballando, almeno finché Cassandra non mi impreca contro una profezia che se non la smetto potrei cadere da un momento all’altro.

Tornati alla fonte dove abbiamo pranzato risaliamo un altro tratto e poi prendiamo una deviazione che ci permette di tagliare la montagna, in pratica la nuova strada ci fa arrivare a “Le vedute” senza dover tornare in cima al Monte Autore. Percorso molto bello e panoramico, da fare.

Anche da “Le vedute” facciamo un’altra strada rispetto all’andata. Lasciamo il sentiero dei boschi e rimaniamo sulla strada sterrata, molto bella anche questa, anche se dopo che arriviamo all’osservatorio astronomico iniziano a comparire molte macchine parcheggiate.

Tutto sommato una bellissima passeggiata, non vedo l’ora di tornare ad esplorare altri sentieri di questa zona.

giovedì 22 ottobre 2020

Campo imperatore - Monte Aquila - Rifugio Duca d’Abruzzi

 

Dopo la sudata di ieri oggi abbiamo deciso di rinfrescarci un po’ tornando sul Gran Sasso. Sfortunatamente non siamo stati gli unici che hanno avuto questa idea.

Non riusciamo ad arrivare nemmeno a Campo imperatore che ci bloccano: il parcheggio più in alto è completo e, secondo gli omini del traffico, per arrivarci dovremmo prendere la seggiovia. Caparbi parcheggiamo lungo la strada e saliamo, a piedi, sotto la seggiovia. La distanza non è molta, in venti minuti siamo a Campo Imperatore. Il caos. Un’orda di gente ha preso d’assalto le bancarelle e gli street food presenti sul piazzale.

Senza fermarci mettiamo la mascherina e facciamo uno slalom gigante che neanche Tomba, quindi iniziamo a salire verso il Gran Sasso.

C’è molta gente, non pensavo che ci fossero tutti questi appassionati di montagna. Ci metto poco però a capire che di “appassionati” ce ne sono pochi, “esperti” ancora meno. Sono molte infatti le persone che salgono il sentiero verso il rifugio con scarpe inadatte.

Immaginando l’affollamento che vi troveremmo, deviamo verso il Gran Sasso. Il sentiero non è proprio semplicissimo, anche se fattibilissimo. Il problema sono sempre le persone che qui non ci sono mai state. Mentre saliamo incontriamo intere famiglie che con scarpette da passeggio, anche infradito, cercando di stare in piedi mentre scendono. Il problema però non è se scivolano e cascano sul sedere, ma i sassi che continuano a far cadere. Basterebbe poco perché finisca su chi sta camminando pochi metri sotto di loro.

Cerco di cucirmi la bocca sotto la mascherina per non litigare con ogni sprovveduto che incontro, stringo i denti e tiro avanti.

Immaginando le stesse scene anche sulla salita del Gran Sasso, con esiti ben più drammatici ed imprevedibili, deviamo verso la cima del Monte Aquila. Il sentiero è quasi completamente sgombro e anche se saliamo fino a 2500 metri, ce lo godiamo mettendo l’antivento. Certo la vista non è la stessa del Gran Sasso, che troneggia sopra di noi seminascosto dalle nuvole, ma qui in cima ci siamo quasi solo noi.

In discesa troviamo anche un angolino al riparo dalle grandi folate di vento e ci mangiamo con calma il panino, quindi riprendiamo il cammino verso il rifugio, ho bisogno di un caffè.

Senza rifare il percorso dell’andata, tagliamo in orizzontale la montagna. Il sentiero non è semplicissimo, ma sempre fattibile. Si arriva al rifugio in trenta minuti circa. Per fortuna il grosso dell’assalto turistico è andato e in soli dieci minuti di fila riesco a bermi il caffè che volevo.

Arrivato il momento di tornare scendiamo il sentiero, dove incontriamo ancora tantissima gente che sale. Si capisce subito che non sono abitué della montagna. L’abbigliamento è quello di chi è salito in funivia per farsi un aperitivo, e poi le scarpe… finché salgono va bene, ma quando dovranno scendere? Eccone degli altri! Per evitarli ci tocca uscire dal sentiero, che nonostante sia sconsigliato, è più sicuro che stare loro accanto, o sotto…

mercoledì 21 ottobre 2020

Cascate di Trevi - Aniene - Sacro Speco - Santa Scolastica


Ferragosto. Sarà dura trovare un posto isolato dalla massa di gente che vuole festeggiare. Temo che per farlo dovremo sudare sette camicie. La meta di oggi sono le cascate di Trevi sul fiume Aniene, poco distante dagli Altipiani di Arcinazzo. Già mentre attraversiamo questa località turistica, amatissima dai romani, capiamo subito che c’è troppa gente in giro. Solo per attraversare in auto il piccolo centro ci mettiamo venti minuti.

Quando poi arriviamo nei pressi del fiume lo spettacolo è ancora più inquietante. La strada è costellata di auto parcheggiate su entrambe i lati. Sulle rive verdi del fiume si intravedono moltissime persone che stanno preparando il barbecue. Proseguiamo lentamente sperando che vicino alla nostra meta le auto scompaiano, ma più avanziamo e più la gente aumenta.

Quando arriviamo alla cascata, la strada è molto stretta. Non si vedono spiagge o prati dove la gente possa fare picnic. Infatti ci bastano cento metri per trovare un posto dove lasciare l’auto. Torniamo indietro e scendiamo sul torrente, dove all’ombra troviamo qualche gruppo o famiglia che ha preso posto in attesa di iniziare la scorpacciata. Noi seguiamo il corso del fiume per un centinaio di metri, forse due, finché non arriviamo alla cascata. Fresca, piccola, ma fresca. Ovviamente c’è gente, ma non tanta quanto avevo temuto. Lì accanto c’è anche una struttura in pietra, pare che sia stata costruita sopra alle rovine di una villa romana.

Ma il nostro Ferragosto non sarà qui. Ritorniamo sui nostri passi e nei pressi del ristorante dove abbiamo parcheggiato, imbocchiamo un sentiero sull’altro versante dell’Aniene. La strada è sterrata e grande abbastanza per far passare un’auto, ma è chiusa da una sbarra. In ogni caso la nostra idea era quella di camminare. Purtroppo il sentiero è prevalentemente al sole, per cui sentiremo caldo anche se non ci facciamo troppo caso. Seguiamo il corso del fiume e all’inizio lo sentiamo solo scorrere sotto di noi, poi scendiamo e ci avviciniamo all’acqua, dove di tanto in tanto sentiamo qualche gruppo di persone festeggiare. Sono arrivati anche qui. Difatti qualche auto passa e finisce per parcheggiare lungo le radure che si aprono vicino al fiume. Comunque stanno ben distanti, non avremo mai problemi.

Per tutto il percorso però sarò distratto, tentato dai frutti di bosco. Per chilometri, su entrambi i lati del sentiero, ci sono rovi di more che mi chiamano chiedendomi di assaggiarle. Io sono debole, ho bisogno di sapere se sono buone, inoltre è l’ora della merenda mattutina.

Non sono tutte mature, diciamo che solo il 20 o 15 % lo è, ma per me è più che sufficiente per camminare con una mano quasi sempre piena di more mature da gustare. 

Il sentiero va avanti per circa cinque chilometri, fino ad un’antica Mola. Scendiamo per ispezionarla e goderci il fresco dell’ombra e dell’acqua. 

Poco più avanti troviamo l’ingresso di una grotta e ci fermiamo a controllare la mappa. La mia idea iniziale era quella di continuare, il sentiero infatti arriva fino a Subiaco, proprio nei pressi dei resti della villa di Nerone.

Sfortunatamente avevo fatto male i calcoli perché da quel punto ci sarebbero altri sei o sette chilometri, il che significa che alla fine ne dovremmo fare 22 o 24 in totale. Considerando quanto fa caldo, ci accomodiamo a mangiare il nostro panino e torniamo indietro. A Subiaco ci andiamo in auto.

Recuperato il mezzo ci incamminiamo, ma appena prima di arrivarci vediamo il cartello del Sacro Speco e facciamo questa piccola deviazione. Questo santuario/eremo merita davvero una visita. Costruito all’interno della montagna è diventato uno scrigno benedettino dove, tra i vari affreschi eccezionali, uno in particolare raffigura San Francesco.
Anche se a causa del Covid non è possibile visitare questa piccola saletta,  raccontano che si tratta del ritratto più somigliante esistente del santo. 


Anche gli altri affreschi sono molto belli, ma ciò che colpisce di più è come sia stato costruito il santuario, sfruttando i versanti della montagna come pareti. Il risultato è una struttura unica.

Terminata la visita ci dirigiamo allora al santuario di Santa Scolastica a Subiaco. Scolastica infatti era la sorella gemella di San Benedetto da Norcia. Purtroppo il Covid ci impedirà di vedere quasi tutto il santuario perché qui ci vivono ancora una ventina di monaci di una certa età, al contrario del precedente dove di monaci ne erano rimasti solo quattro.

martedì 20 ottobre 2020

Lago Racollo – Rocca Calascio

 

Prosegue la fuga dal caldo. Stavolta per dargli un taglio netto, dobbiamo salire di livello. Quindi ci dirigiamo verso il Gran Sasso, ma invece di andare in direzione Campo Imperatore, andiamo a destra verso il rifugio Racollo, presso il lago Racollo. Siamo a circa 1400 metri, per cui si sta benissimo. Camminiamo un pochino in una grande piana verde, senza praticamente anima viva all’infuori di noi. In lontananza, poco sopra una collina, spiccano i resti di un monastero del 1200.
Siamo diretti proprio lì come prima tappa, non posso fare quindi a meno di fotografarne ogni pietra, connessa o sconnessa che sia, cercando di prendere gli scorci della valle sottostante da ogni angolazione.

La prossima tappa è il secondo lago, poco più avanti del monastero. Come il primo ha poca acqua, ma rispetto al precedente è sufficiente per ospitare una colonia di rane e volatili, nonché piante acquatiche.

Il sentiero risale leggermente verso un’altra grande pianura dove pascola un gregge di pecore, ma appena ci muoviamo per valicare il passo, un paio di cani pastore iniziano a lanciare l’allarme intrusi. Sono pastori maremmani, ‘sti infami. Memore dei quattro punti di sutura che mi hanno lasciato come ricordo quattro anni fa, decido di desistere e cercare un posto all’ombra dove consumare il nostro pranzo al sacco.

Saliamo sulla collina che separa il laghetto dal monastero e da lontano osservo la situazione del gregge e dei pastori assassini. Ce ne sono almeno dieci. Abbiamo fatto bene a fermarci lì, non si sa mai.

Con calma torniamo indietro fino alla macchina per dirigerci verso luoghi più civilizzati.

Rocca Calascio è a circa venti chilometri dal lago Racollo, in direzione Santo Stefano di Sessanio. Ci godiamo il viaggio su questo altipiano rinfrescante, almeno finché non arriviamo a Rocca Calascio, dove troviamo un’invasione in corso. Il borgo infatti è preda di un’orda di turisti che cercano qualcosa da mangiare o un passaggio verso la rocca.

Dopo aver faticato per trovare parcheggio torniamo verso il centro a piedi e ci informiamo per la navetta che porta su alla Rocca vera e propria. Pare infatti che non ci sia alternativa con tutta questa gente. Prendiamo i biglietti e ci mettiamo in fila assieme ad un sacco di gente che brontola come se ci fosse uno sciopero dell’ATAC. Quando finalmente arriva il nostro turno e saliamo in alto, ci rendiamo conto che forse abbiamo fatto bene ad aspettare. La strada non è breve e in cima non c’è praticamente posto per parcheggiare.

Attraversiamo il borgo a piedi, tra effluvi di arrosticini e gente che impreca perché i bar sono tutti chiusi e non ci sono bagni. Quando ne usciamo non è ancora finita: si sale ancora. Percorriamo un sentiero abbastanza ampio ma isolato, sopra il quale scorgiamo i resti di un altro borgo in rovina.

In fine arriviamo alla chiesa esagonale che troneggia davanti al sentiero, sullo sfondo l’altipiano verde. Molto bello e panoramico, ma questo è solo l’antipasto, perché alle nostre spalle c’è la vera Rocca Calascio.

Usata come cornice per film come “Ladyhawke” e “Il nome della Rosa”, i resti della Rocca sono praticamente come nelle scene girate in esterno di “Ladyhawke”, con il ponte levatoio, qui fisso, che separa la Rocca dal resto dei ruderi.

Ovviamente nella Rocca non c’è niente da vedere, se non il panorama. Gli scorci sono molto belli e meritano la fatica per arrivare qui, così come la pazienza spesa nello schivare gli altri turisti. È pomeriggio inoltrato e, se non ricordo male, quando Gaston porta il falco ferito ad Imperius, è pressapoco la stessa ora. Certo la folla di turisti non aiuta, ma in alcuni brevi momenti in cui la gente si dirada, si riesce ancora a intravedere qualcosa di quell’atmosfera medievale.

lunedì 19 ottobre 2020

Palazzo Chigi ad Ariccia

 

Sono stato altre volte ad Ariccia, ma solo per andare a mangiare alla Selvotta, difatti questo palazzo l’ho sempre visto chiuso. Questa volta dunque il Covid ci ha dato l’occasione di poter vedere cosa nasconde al suo interno e devo dire che di cose ce ne sono tante.

I Chigi acquistarono il palazzo dai Savelli e commissionarono al Bernini il progetto per il palazzo come è oggi, progetto portato poi a termine da Carlo Fontana.

Ben tre piani di opere, tra cui spiccano Il “Pindaro e Pan” di Salvador Rosa e “Il Beato Giovanni Chigi” del Baciccio.

Al piano terra le opere sono esposte nelle cosiddette stanze del Cardinale, poi c’è il piano nobile e all’ultimo piano c’è il museo del Barocco.

Il palazzo è uno spettacolo all’interno che da fuori non ci si aspetterebbe, difatti qui ci hanno girato moltissimi film, tra cui mi viene da citare Il Gattopardo. Citarli tutti è quasi impossibile, basta dire che dal 1950 al 2016 ne hanno girati moltissimi tra film e serie tv.

Un pochino storditi, ma molto più affamati, al termine della visita tentiamo di andare alla Selvotta, ma la fila che troviamo è davvero anti antiCovid, e comunque sarebbe stata scoraggiante anche per i tempi pre Covid. Torniamo allora indietro e ci buttiamo nel girone dei dannati di coloro che leggono i menu esterni delle fraschette e non sanno quale scegliere.

L’indecisione ci porta sotto il ponte di Ariccia, non quello tristemente famoso perché punto favorito per i suicidi, bensì quello dall’altra parte del palazzo. Qui ci sono dei tavoli all’aperto e spira un venticello che in questi tempi di caldo umido ispira un gran bel refrigerio.

Ci sediamo negli unici due posti disponibili, allo stesso tavolo di una coppia ma a distanza di sicurezza. Mangiamo tranquilli, anche troppo, e beviamo, o almeno io bevo, ancora di più. Cassandra si astiene causa pessima qualità del vino.

Per riprendere possesso delle mie facoltà ci tocca una bella passeggiata postprandiale ed un caffè digestivo. Non sono più abituato a certe mangiate… ne risentirò fino al giorno successivo.

 

domenica 18 ottobre 2020

Palestrina - Grotte dell'Arco

 

Un po’ fuori Roma, su una collina oltre Colle Ferro, dove arriva l’antica via Prenestina, c’è Palestrina. Più volte avevamo tentato di andare a visitarla per vedere il palazzo Barberini che sorge sui resti dell’antico tempio della dea Fortuna Primigenia, con le sue scalinate che scendono verso l’abitato.

Stavolta ci riusciamo proprio grazie all’Asino d’Oro, che in questi tempi di post Covid ha allargato il proprio raggio d’azione fuori della città eterna.

Per prima cosa visitiamo i resti del santuario delle Fortuna Primigenia, uno dei più antichi, forse il più antico dedicato a questo tipo di divinità. Con le sue grandi terrazze mi ricorda un po' l’Asklepion di Kos.

Quindi entriamo a vedere il museo, che nonostante le chiusure di alcune ali per il Covid, si rivela grande e ricco. Tra le cose che più colpiscono, c’è la sala con il grande mosaico colorato raffigurante scene di vita sul Nilo.

Scene in certi punti molto fantasiose, e forse proprio per questo il mosaico è ancora più eccezionale e bello. 

Il posto merita, ma purtroppo l’abbiamo vissuto un pochino male per il discorso del Covid.

Il personale del museo infatti ci segue a vista in ogni sala come se fossimo degli elefanti in un negozio di cristallo, pronti a redarguirci se fossimo affollati o soffermati troppo.

Alla fine la visita ci porta via tutta la mattina, quindi ci spostiamo verso la prossima meta, le Grotte dell’Arco di Bellegra.

Prima però ci fermiamo in un paio di borghi lungo la strada. Il primo è Cave, di cui non conosciamo nulla. Attirati da alcuni cartelli che promettono meraviglie storiche, parcheggiamo e ci mettiamo a passeggiare per le vie del centro. Delusione, forse sfortuna, fatto sta che da dove parcheggiamo camminiamo per mezz’ora senza incontrare nulla che sia degno di nota, così riprendiamo la strada verso le grotte.

Non ancora soddisfatti della cantonata presa poco prima, ci imbattiamo in Olevano Romano e ritentiamo la fortuna. Stavolta va meglio: il borgo sembra molto più carino e caratteristico. Arriviamo fino alla sommità del paese, dove i resti di una rocca dominano la valle in lungo e in largo.

Il tempo però inizia ad essere poco, così salutiamo Olevano (omettono, insomma decidete!) e in pochi minuti siamo a Bellegra, più precisamente alle Grotte dell’Arco.

Il gruppo che troviamo in attesa della visita è abbastanza variegato. Fa molto caldo ma appena ci addentriamo nell’ingresso delle grotte dove indossiamo gli stivali e il caschetto con la luce, la temperatura scende a livelli umani. Prevedendo il peggio iniziamo a coprirci. Le possibilità di visita, da prenotare con un po’ di anticipo, sono tre: il percorso turistico che non necessita l’uso degli stivali perché si cammina su delle passerelle e dura circa 40 minuti, quello speleo turistico che però si può fare solo con le galosce perché si camminerà dentro un torrente, durata 2 ore circa. Infine ci sarebbe il percorso speleologico vero e proprio, ma in questo caso credo ci vuole una certa preparazione fisica e un po’ di esperienza, nonché  guanti e tuta ad hoc perché c’è da fare qualche movimento con le mani per aiutarsi nei passaggi più angusti.

Noi optiamo per lo speleo turistico e ne siamo soddisfatti. La prima parte è molto scolastica e la guida cerca di fare il simpatico per coinvolgere tutto il gruppo, forse perché la speleologia non riscuote spesso l’apprezzamento dei turisti. Personalmente è un’attività che mi è sempre piaciuta. Già da bambino sono stato più volte in gita scolastica alle Grotte di Toirano.


Nella prima parte siamo accompagnati anche dai partecipanti del percorso turistico. Ci imbattiamo quasi subito nei disegni preistorici degli uomini che vissero qui migliaia di anni fa. Siamo ancora abbastanza vicini all’uscita, ma qui si fermano i segni di presenza umana che non sembra si sia addentrata oltre nella montagna.

Sergio, la guida, tiene più volte a dirci spiegandolo nei modi più disparati, che questa è l’unica grotta carsica visitabile del Lazio. Per carsica si intende una grotta dove prima c’era acqua, per cui non poteva essere abitata.

Camminiamo in mezzo a stalattiti e stalagmiti di ogni età, da qualche centinaio di anni a qualche centinaia di migliaia di anni. Sergio spiega come si formano, da trasparenti cannucce che poi si riempiono e diventano la base su cui si crea tutta la struttura. Sono vive finché l’acqua le fa crescere, altrimenti, quando l’acqua smette di scendere su di loro, si dice che siano morte. Anche se si parla di pietra, in realtà un fondo di vita latente c’è: su di essa ci sono batteri vivi che grazie all’acqua e la pochissima luce che filtra dell’ingresso riescono a sopravvivere.

Addentrandoci sempre più, arriviamo alla fine delle passerelle, dove i turisti ci salutano. Il fresco ora è diventato freddo, ma camminando riusciamo ancora a scaldarci. Il problema sono i sassi. Infatti le calosce mantengono i piedi asciutti anche quando entriamo nei torrenti, ma non proteggono dai sassi che distruggono la pianta del piede. Qui ci vorrebbero delle calosce con la suola in vibram.

Man mano che proseguiamo nella montagna le volte sopra di noi diventano sempre più grandi e ampie.

Vedo Sergio, che non smette di parlare un solo attimo, sempre con lo sguardo per aria. Sta cercando qualcosa.

In questa grotta infatti vivono dei pipistrelli unici al mondo.

Un po’ spaventati guardiamo attorno anche noi, ma ci rassicura dicendo che ora stanno dormendo, si sveglieranno fra poco, dopo che ce ne saremo andati dalla grotta. Se siamo fortunati riusciremo a vederli.

Questa specie così particolare ha un nome un po’ bizzarro, Miniopterus, che scritto così suona in modo scientifico. Ma Sergio non lo pronuncia così. Lui li chiama Mignottèra.

Solo Cassandra afferra la battuta, ed è la fine.

Inizia a ridere senza soluzione di continuità. Per fortuna ha la mascherina e probabilmente non se ne accorge nessuno. Io però sono lì accanto e quando capisco il motivo delle risate di Cassandra non riesco più a trattenermi neanche io... vengo inesorabilmente trascinato nel suo magico mondo esilarante.

Purtroppo anche Sergio se ne accorge e da buona guida turistica rincara la dose quando ci racconta che le grotte vengono chiuse per tre mesi all’anno proprio a causa dei pipistrelli.

Un turista prova a ipotizzare “Perché? Vanno in letargo?"

“Ma de che? Sti figli de na Mignottera non vanno letteralmente in ibernazione, e così noi non li possiamo disturbà, perché se anche solo provassimo a sfiorarli, quelli ce cascano stecchiti come na pera marcia”.

Porca mignottera.

Un po’ storditi ma divertiti, proseguiamo verso un’altra grandissima sala dove nel mezzo c’è un grosso blocco di pietra e sabbia. Sergio ci racconta che dentro quel blocco sono stati trovati i resti 13 orsi preistorici e, probabilmente, ce ne potrebbero essere degli altri, ma gli scavi sono stati interrotti, anche perché dopo tredici orsi… Avranno detto: Sai che c’è?

Come quando apri delle bustine di figurine e trovi tredici volte di seguito lo stesso calciatore. Per finire l’album provi almeno a cambiare edicola…

Proseguiamo verso l’ultima grande sala dove la guida tenta l’esperimento del buio assoluto. Purtroppo ci sono dei bambini nel gruppo e l’esperimento dopo qualche minuto di buio e silenzio fallisce. In ogni caso io mi aspettavo di vedere brillare le pareti della caverna grazie alla luce prodotta da creature e funghi alieni, ma non c’era nulla di tutto ciò, solo buio.

Proseguiamo ancora un pochino, infilandoci in un percorso che diventa sempre più stretto e difficile. A poco più di ottocento metri dall’ingresso della grotta, siamo infatti arrivati alla fine del percorso speleo turistico, da qui inizierebbe quello speleologico, ma in questo gruppo non c’è nessuno che si è prenotato per questo, così torniamo tutti indietro, stavolta volgendo sempre lo sguardo verso l’alto, alla ricerca di qualche chirottero dormiglione.

Purtroppo arriveremo fino alla fine senza vederne uno, sti figli de ‘na minioptera…

sabato 17 ottobre 2020

Passeggiata notturna al Vivaro


Questa sera torniamo ai pratoni del Vivaro perché ci aspetta una passeggiata notturna alla ricerca del buio assoluto per provare a vedere quante più stelle possibili e, se siamo fortunati,  la cometa Neowise. Torniamo forse anche perché ieri non abbiamo preso abbastanza freddo.

L’inizio della serata non è incoraggiante: ci fanno la solita presentazione, però effettivamente siamo gli unici presenti che c’erano anche la sera prima...

Dopo l’intro ci spostiamo sul retro dove c’è il grande telescopio, stavolta puntato sulla mezza luna del nostro satellite. Allora funziona! Dopo aver ammirato la Luna con i suoi crateri che la fanno somigliare ad una groviera grigio-bianco, usciamo in strada e ci incamminiamo verso i pratoni.

Memori di ieri sera, ci siamo coperti con una felpa, ma alla lunga non basterà nemmeno questa.

Usciamo dal centro abitato e attraversiamo un campo e poi una strada. Anche se è molto più buio rispetto a Roma, ancora non si vedono quelle stellate sotto cui uno vorrebbe passare una serata disteso sull’erba a chiacchierare.

Il motivo è sempre lui: il famigerato inquinamento luminoso.

Arriviamo a destinazione, a centro di un grande prato circondato dal nulla, se non dai lontani alberi e le creste dei colli Albani, il buio è quasi totale, quasi. C’è infatti una luce verso nord che rovina un po’ la visione in quel settore del cielo, che neanche farlo apposta è proprio quello dove ci sarebbe la cometa.

L’astronomo ci racconta che fino a settimana scorsa era ben visibile a occhio nudo. Stasera invece non si vede nulla.

Mentre spiega le costellazioni io tento l’impossibile: fotografare le stelle. Nonostante abbia una vecchia fotocamera, quasi sicuramente non adatta a questo genere di foto, monto il treppiede, gli fisso la fotocamera, e ad essa il telecomando. Imposto i settaggi al meglio delle sue possibilità e inizio a sparare a caso in cielo. Risultato ovviamente negativo, nel senso che sono venute tutte nere come un negativo.

Ci ho provato.

Mi godo allora la spiegazione della volta celeste, cercando di intravedere anche la via Lattea, almeno finché il freddo diventa veramente pungente ed è ora di tornare indietro.

Serata interessante, ma dovevamo venire più preparati, in tutti i sensi.

venerdì 16 ottobre 2020

Osservatorio di Rocca di Papa - Giove e Saturno

 

Questa è un’altra di quelle cose che ho provato a fare sin da quando sono a Roma, ma che per un motivo o per l’altro non mi era mai riuscito di fare. Effettivamente la prenotazione deve essere fatta con largo anticipo e i posti non sono molti, ma stavolta ce l’abbiamo fatta, anzi, ho prenotato per due sere di seguito.

La prima sera, un venerdì, abbiamo prenotato per l’osservazione guidata del cielo di luglio. Neanche farlo apposta, in questo periodo in cielo ci sarebbe la cometa Neowise da osservare, anche se per la data che abbiamo prenotato le possibilità di vederla ad occhio nudo sono ridotte al “lumicino”.

In questi giorni di gran caldo, forse una serata al fresco dei Castelli ci farà bene anche dal punto di vista fisico. Ci dirigiamo all’osservatorio di Rocca di Papa, ma seguendo le indicazioni che il navigatore ci dà, non arriveremo proprio lì, anzi. Spuntiamo infatti sui pratoni del Vivaro, dove la tradizione vuole che i romani vengano a festeggiare il primo maggio mangiando fave e pecorino. Io non ho ancora avuto il piacere di sperimentare questo tipo di festeggiamenti, ma ora che so dove stanno i pratoni del Vivaro…

Arriviamo all’osservatorio con un pochino di anticipo e già notiamo che i lampioni attorno alla struttura sono stati spenti.

In attesa del nostro turno veniamo accolti da una lucciola, l’insetto eh, che cos’avevate capito?

Ci fanno accomodare in una sala dove spiegano che tutta la zona è all’interno della caldera del super vulcano dei Colli Albani, quindi anticipano cosa vedremo in cielo e come, e dopo alcuni brevi filmati di presentazione ci riportano fuori. In attesa di entrare nel piccolo planetario, spiegano ancora qualcosa, soprattutto tengono a spiegarci i danni dell’inquinamento luminoso. Loro sono appassionati di astronomia, li capisco, senza l’inquinamento luminoso il loro lavoro sarebbe molto più facile, ma a noi che siamo semplici appassionati di astronomia? Che problemi dà?

Raccontano che l’inquinamento luminoso provoca abbagliamento, alterazione dei ritmi circadiani, possibili danni ai tessuti degli occhi, miopia e possibili alterazioni di alcuni importanti ormoni quali ad esempio la melatonina ed il cortisolo, e sono solo alcuni degli effetti constatati. Io non me ne sono mai reso conto, ma forse il problema è proprio questo, non ce ne rendiamo conto. Purtroppo, come la maggior parte dei problemi ambientali, personalmente posso contribuire poco alla risoluzione del problema, ma è sempre meglio di niente.

Oltre a questo ci mostrano le costellazioni visibili in quell’angolo di cielo, quindi entriamo finalmente nel planetario. La struttura è un planetario gonfiabile e trasportabile che viene utilizzato per andare nelle scuole a fare divulgazione.

Certo non è come quello di Milano dove sono stato più volte, ma per lo meno permette di divulgare a domicilio.

La spiegazione si ripete un pochino sull’inquinamento visivo e sulle costellazioni visibili in cielo. Varia un po’ quando si introduce l’argomento delle tredici costellazioni dello zodiaco.  Esatto, perché oltre ai classici 12 segni zodiacali, ce ne è un tredicesimo: l’Ofiuco. Mai sentito? Allora ho uno scoop: se siete nati tra il 29 novembre e il 18 dicembre e vi dicono che siete degli Ofiuchi, non prendetela come un insulto perché la costellazione dello zodiaco presente in cielo in quel periodo è proprio questa, con buona pace di tutti gli astrologi sapientoni.

Ma perché solo dodici, o meglio, tredici costellazioni fanno parte dello zodiaco se in cielo ci sono molte altre costellazioni? In realtà i segni zodiacali sono solo quelli presenti sull’eclittica, ovvero il cammino annuale del Sole lungo la volta celeste.

Allora perché l’Ofiuco non viene mai nominato? Sarà un problema di Damnatio memoriae? Stava antipatico alle altre costellazioni? Sarà che la sua comparsa causerebbe la perdita del lavoro a centinaia di maghi e astrologi? Oppure sarà che gli astronomi se ne fregano dell’astrologia perché impegnati a studiare ben altri problemi più importanti?

Conclusa la lezione scolastica nel planetario, usciamo nel giardino dall’altra parte dell’osservatorio, dove è pronto un gigantesco telescopio puntato verso un ammasso stellare. Purtroppo in cielo sono comparse diverse nuvole, per cui dovremo aspettare che se ne vadano. L'astronomo volontario incaricato racconta ancora tutto da capo il discorso sull’inquinamento luminoso, costellazioni, stelle e poi ci indica Giove e Saturno visibili a occhio nudo. Sfortunatamente le nuvole si muovono molto lentamente e il poveruomo non sa più cosa raccontarci. Quando finalmente l’ammasso stellare sarebbe visibile, uno alla volta ci avviciniamo al telescopio, ma quello che si vede è solo una sfocatissima pallina punteggiata. Manco fosse uno di quei test oculistici in cui devi scovare dei numeri.

La prossima tappa è un telescopio vero, di quelli tenuti nelle cupole. Purtroppo saremo gli ultimi ad entrare, e fuori fa freschino. Tocca finalmente a noi, ma ecco un’altra piccola delusione: non si può guardare nel telescopio perché impegnato in un lavoro automatico: sta tracciando un asteroide che viaggia nel sistema solare. Non è diretto verso la Terra, per cui non preoccupatevi.

Il suo lavoro però è interessante: sta calcolando la sua forma per mezzo dei riflessi che vengono generati dalla luce solare. Il tecnico presente ci mostra infatti su un monitor ed un oscilloscopio i dati che arrivano dal telescopio e l’immagine tridimensionale che ruota sullo schermo. C’è anche una stampante 3D e difatti lì accanto campeggia in bella mostra di sé il modellino dell’asteroide stampato a forma quasi di pera. Una pera piuttosto grossa, di qualche chilometro. Un perone.

Torniamo giù in giardino dove qualcuno insiste nel cercare di unire i punti dell’ammasso stellare, ma noi abbiamo preso abbastanza freddo e torniamo verso la macchina, non prima di aver visto Giove e Saturno. Nel piccolo parcheggio infatti erano stati approntati altri due telescopi, più piccoli, ma a quanto pare più precisi. I due pianeti risultano molto piccoli e non si vedono come nelle immagini che conosciamo dai documentari, ma si vedono abbastanza bene, tanto che sono ben visibili dei puntini che gli brillano attorno. I maggiori satelliti sia di Giove che Saturno! Sono proprio loro! Non pensavo proprio che questi si potessero vedere attraverso un telescopio del genere. Molto bello.

giovedì 15 ottobre 2020

Porto di Claudio e Traiano

 


Poco fuori Roma, vicinissimo a Ostia, c’è il porto di Claudio e Traiano. Ci si arriva facilmente e, per quanto un tempo fosse un porto immenso, ora del mare non se ne vede la traccia perché in duemila anni il Tevere ha allungato la costa di alcuni chilometri.

La visita al parco inizia partendo dai magazzini del porto, dove le merci che venivano scaricate dalle navi venivano stipate in attesa di essere rispedite verso Roma lungo il Tevere.

Il porto di Claudio nacque proprio come nacque Ostia antica, ovvero quando il porto di Roma, tra l’isola tiberina e Testaccio era diventato insufficiente a gestire il commercio e il traffico che era aumentato esponenzialmente. Così quando il porto di Ostia divenne anch’esso insufficiente, nacque il porto di Claudio che si affacciava direttamente sul mediterraneo. L’imperatore infatti creò una grande struttura protettiva, un bacino all’interno del quale potevano entrare molte più navi rispetto al porto di Ostia. Nel punto più esterno di tale struttura c’era un grande faro, che doveva essere simile a quello di Alessandria.

Mentre camminiamo a fianco dei magazzini, arriviamo ad un punto dove c’è un grande spiazzo senza strutture, c’è solo un grande prato circondato dal sentiero di visita. Mentre lo percorriamo troviamo proprio a fianco del percorso un cartello con scritto “Mare”. Il prato infatti rappresenta quello che doveva essere il grande bacino che accoglieva il mare. Della torre del faro ovviamente non se ne vede traccia, anche perché secondo alcune recenti indagini pare che i resti si trovino molto più a ovest, sotto qualche edificio dell’odierna Fiumicino.

Mentre il porto cresceva, iniziò a nascere anche la città di chi doveva lavorare e mandare avanti questa grande macchina del commercio, ovvero Portus. Ci dirigiamo allora verso l’antica città di Porto, che ad oggi giace ancora quasi interamente sotto la pineta che sorge accanto all’area dei magazzini. Le uniche strutture scavate e visibili sono un paio di porzioni di Domus e una basilica, trasformata più volte nei secoli e poi abbandonata in seguito ad un terremoto come tutta la città.

Il percorso prosegue verso est dove ancora oggi sarebbe visibile il bacino artificiale costruito dall’imperatore Traiano. Proprio come in precedenza, il porto di Claudio era diventato insufficiente e così Traiano creò questo grande bacino esagonale, sui cui lati erano stati costruiti grandi edifici per immagazzinare le merci, ma anche per le riparazioni e le costruzioni delle navi. Arriviamo alle spalle di alcuni magazzini che si affacciano proprio sul porto di Traiano, ma causa Covid non possiamo accedervi e affacciarci alle terrazze da cui si può ancora vedere il lago esagonale.


Ad oggi l’unico modo per vederlo sarebbe tramite le terme di Roma, che si affacciano proprio sullo specchio d’acqua, oppure quando si prende un aereo da Fiumicino, in fase di decollo è molto facile vederlo.

Ci sarebbero da vedere ancora le strutture delle terme e del palazzo imperiale, dei moli interni e altre domus, ma il Covid ne blocca l’accesso. Non capisco questi divieti, non ci sono luoghi chiusi e non si rischiano sovraffollamenti in un posto così grande. Un po’ delusi siamo costretti a terminare qui la visita, ma torneremo, è una minaccia.