È simpatica ma ci tiene
a ricordarci le regole di comportamento che si dovrebbero tenere in Giappone:
sui mezzi non si deve parlare a voce alta, perché molti ci si riposano tra una
tappa e l’altra. Nei templi è vietato mangiare, bere e fumare, nonché fare foto
quando è specificato, nei templi quasi sempre.
Non si può mangiare e
bere neanche sui mezzi pubblici.
Quando si cammina per
strada si va in fila per uno, sulle scale si tiene la sinistra e si sta sempre
in fila. Alla fermata degli autobus ci si mette in fila.
Non ci si tocca. I
giapponesi lo riterrebbero una mancanza di rispetto. Questo lo vedremo meglio
dopo.
Dopo queste brevi
premesse andiamo a vedere il castello di Nijō, la residenza dello shogun a
Kyoto.
In realtà qui non ci
veniva quasi mai perché lui viveva a Edo, che da quando divenne Shogun diventò
la capitale.
Il castello di Nijō è
diverso da quello di Himeji che si sviluppa verso l’alto, lo fa
orizzontalmente.
Come tutti i luoghi
sacri o antichi, quando si entra ci si deve togliere le scarpe.
A differenza del
castello di Himeji, qui il legno cigola. Evidentemente devono ancora
restaurarlo bene... Invece no! È fatto così volutamente e si chiama “pavimento
dell’usignolo”, una tecnica di costruzione medievale giapponese. Grazie ad un
sofisticato meccanismo a pressione, quando si cammina sulle assi del pavimento
queste premono lievemente su dei chiodi che, scorrendo su una superficie
metallica, emettono un cigolio, un cinguettio, quasi fosse quello di un
usignolo. Ora che la guida ce lo ha spiegato, la trovo un'idea fantastica. In
questo modo gli attacchi furtivi, anche quelli più silenziosi dei ninja,
potevano essere sentiti. Ricordiamo le pareti erano fatte di legno e carta...
Verisure, spostate!
Le assi su cui stiamo
camminando hanno 400 anni e il meccanismo funziona perfettamente.
Nelle stanze non ci
sono mobili sebbene sia difficile immaginarlo. L’arredamento non deve essere
molto differente da allora. La guida spiega che se avevano bisogno di qualcosa,
per esempio un tavolino, lo andavano a prendere, lo usavano e lo rimettevano
via.
In ogni caso quasi
tutto era fatto a terra sul tatami, perfino scrivere.
Le prime sale che
vediamo erano di rappresentanza e hanno dipinti sulle pareti delle tigri e
germogli di bambù. La guida rivela che il dipinto rappresenta proprio aprile
perché è in questo periodo che nascono i bambù marroni e appuntiti.
Le tigri però non le
sapevano fare bene... In realtà erano dipinte in modo fantasioso perché non le
avevano mai viste. Però le conoscevano e le scelsero per la loro fama: dovevano
incutere timore e forza ai visitatori.
La stanza successiva
invece aveva un solo pino dipinto, in un angolo. Simbolo di perseveranza e
immortalità: i giapponesi nel pino ci vedono il drago. Questa doveva mostrare
la forza dello Shogun.
Più ci addentriamo e
più ci avviciniamo alle stanze dello Shogun.
Da qui in avanti tutte
le pareti erano ricoperte da sottilissimi fogliettini d’oro. Alcune sono anche
dipinte, il che mi fa venire in mente Klimt.
La prossima stanza ha
anch’essa un pino con alcuni disegni di giochi d’acqua. Ci stiamo avvicinando
alla sala delle udienze.
Sopra alle pareti si
vedono disegni a intarsi nel legno, da cui passa l’aria tra una stanza e
l’altra, in parte per evitare la muffa, soprattutto per poter sentire,
origliare.
In questo modo però
passa anche il caldo e il freddo.
La guida a tal
proposito ci rivela un detto antico che recita:
A Kyoto rabbrividiamo e
sudiamo.
Arriviamo quindi ad una
stanza con le statue a grandezza naturale dello Shogun che abdica di fronte a
molti samurai di famiglie diverse: questa è la stanza delle udienze.
In questa
raffigurazione molto fedele si può vedere che solo un paggetto e lo Shogun
potevano portare la spada.
C’erano anche le
guardie, ma erano invisibili perché nascoste dietro le pareti di carta e
sarebbero intervenute immediatamente in caso di pericolo.
Possiamo notare subito
che tutti hanno un ventaglio. Questo è un oggetto singolare di cui mi sono
sempre chiesto l’utilità, specie nei periodi invernali. La guida racconta che è
come un’estensione della mano. Per non toccare o farsi toccare con le mani, si
usavano i ventagli. In questo modo si indicava anche lo spazio personale entro
il quale non si poteva andare. Era una forma di rispetto. Ecco da dove nasce il
fatto che ancora oggi toccare una persona non è ben visto e mette a disagio.
Ora capisco perché
quando si paga nei negozi c’è sempre il piattino dove mettere i soldi, non per
colpa del covid, per rispetto.
Altro aspetto
interessante da notare, era che lo Shogun è l’unico rappresentato a gambe
incrociate, tutti gli altri sono inginocchiati.
Una cosa che mi sono
sempre chiesto era perché si rasavamo la parte superiore della testa, per moda?
Sembra di sì.
Invece il codino
annodato sulla parte rasata serviva semplicemente per attutire la pressione
l’elmo da guerra.
Proseguiamo nella
visita e arriviamo alla terza stanza dove è dipinto un pino sulle pareti, poi
alberi più piccoli con il mare e una pineta, e infine ciliegi con aironi.
C’è poi anche un’altra
sala delle udienze, questa era per solo i suoi alleati prima che lo Shogun
diventasse Shogun, quindi solo per le persone fidate che già prima gli erano
fedeli.
In un’altra stanza sono
dipinti un ciliegio tardivo, fagiani e le pareti sono ricche di decorazioni
dorate.
In ogni stanza dove
stava lo Shogun c’erano sempre guardie nascoste, sebbene qui potessero entrare
solo gli alleati più fidati. Fidarsi è bene, non fidarsi, non è giapponese.
Nelle stanze private
non si può entrare oggi perché una signora antipatica dice che ci sono troppi
gruppi ed è chiuso.
Arigatoni!!!
Non rimane che
proseguire la visita nelle altre stanze con le peonie dorate e quella dei
falchi. Lo Shogun adorava i falchi.
Tokugawa infatti, dopo
essere stato cremato, voleva che le sue ceneri fossero sparse per i monti di
Nikko, dove andava a caccia con i suoi falchi.
C’è poi la stanza
dorata con solo cinque alberi disegnati in un solo angolo, come a dare un senso
di profondità.
Infine la Sala delle
udienze del messaggero dell’imperatore.
Di solito il messaggero
imperiale era considerato come l’imperatore stesso.
In questo caso lo
Shogun doveva sedersi più in basso rispetto al messaggero.
Rocce e alberi
rappresentano gli dei. Ogni roccia può rappresentare qualcosa di diverso.
È un giardino astratto,
le rocce possono simboleggiare isole che emergono dalle nuvole o dal mare.
Il senso del giardino è
quello di calmare l’animo.
La guida chiede se
siamo stati al tempio Ryoan-ji, dove c’è quel giardino zen con 15 pietre, ma
che da qualunque angolazione le si guardi se ne possono vedere solo 14. Quella
composizione serve per far pensare, è un rompicapo per far aprire la mente e far
ragionare.
Spiega anche che il
muro di argilla cotta con l’olio prende un colore che fa emergere la bellezza
delle cose che sfioriscono, la malinconia, ma con un fine positivo. Un po’ come
quando si guardano i ruderi di qualche antica struttura, che non è certamente
bella come appena costruita, tutt’altro, ma cercando di immaginare come era una
volta, si viene abbracciati da una malinconia positiva che ci fa desiderare di
vederla integra e, allo stesso tempo, la fa apprezzare così come è ora.
Per lo meno io la
interpreto così…
Diciamo che un discorso
del genere meriterebbe più tempo, ma siamo in vacanza, accantoniamo la
filosofia, per il momento.
Terminata la visita al
castello prendiamo un autobus per andare a vedere il famoso tempio d’oro, il
Kinkaku-ji.
In realtà la traduzione letterale sarebbe Padiglione d’oro.
Si tratta di una struttura a tre piani, il primo in legno, gli altri due invece sono ricoperti d’oro. Per le dimensioni i primi due piani sono uguali, l’ultimo è una stanza più piccola di sette metri per sette.
Il padiglione è
adagiato in mezzo ad un laghetto assieme a qualche isolotto sormontato da
pietre e pini che sembrano bonsai. Ovviamente non ci si può entrare. Ci viene
detto che nei primi due piani ci sono delle statue buddiste, il terzo è vuoto.
Quello di oggi
purtroppo è una copia dell’originale perché un monaco, con problemi mentali,
gli ha dato fuoco nel 1300. Ovviamente è stato subito ricostruito allo stesso
modo.
Il giardino è stato
creato con il metodo Shakkei: significa prendere in prestito il paesaggio
circostante.
Da qualunque posizione
guardiamo il giardino, la montagna è come se facesse parte del giardino stesso.
La montagna è stata presa in prestito.
Attraversiamo il
giardino fino al punto in cui la guida mostra un pino particolare che ha 600
anni. È sorretto da una grata di legno per non farlo rompere. Spiega anche come
venivano fatti i muri in antichità: file di fascine di piccoli bambù tenuti
assieme da lacci neri e ricoperti con l’intonaco. Semplice ma fragile,
soprattutto per le piogge. Ecco spiegato perché anche i muri più bassi sono
ricoperti da tetti di tegole, per non farli bagnare con la pioggia.
Una volta riparati
dalla pioggia risultavano molto resistenti, soprattutto ai terremoti grazie
alla flessibilità delle fascine interne.
Fuori dal castello
prendiamo un altro autobus. Essendo ora di pranzo entriamo in un supermercato
così da recuperare qualcosa al volo. Io e Cassandra abbiamo già il necessario
per cui prendo solo una bella birra fredda, poi sento profetizzare da Cassandra
che qui vicino ci dovrebbe essere Ciro, un pizzaiolo che ho visto su youtube e
anche Antonio lo conosce. Già il nome è una garanzia e per una pizza dopo una
settimana di astinenza mi accontenterei anche di quella fatta da un Brambilla
Fumagalli Scaccabarozzi qualunque. Senza pensarci troppo io e Antonio scappiamo
per vedere se lo troviamo. Secondo la mappa è proprio dietro l’ang…
Eccolo!
Ciro è giapponese, ha
vissuto e lavorato 15 anni a Napoli. Va benissimo, non parla italiano, parla il
napoletano.
Ci facciamo fare una
pizza al volo da asporto e facendoci dare la posizione internet con google maps
raggiungiamo gli altri sulla passeggiata del filosofo, un sentiero che
costeggia un ruscello tra le case all’ombra degli alberi e al cospetto delle
montagne.
Ci fermiamo a mangiare
in un parchetto.
Assaggio una fetta di
pizza assieme agli altri e posso testimoniare che la pizza è buonissima.
Con la guida, già grande amante della pizza di Ciro, organizziamo per tornarci tutti stasera a cena.
Terminata la pausa, andiamo a visitare il tempio Honen in un’oasi di pace e tranquillità ai piedi della montagna. Qui la guida si apre un pochino rivelandoci come ha abbracciato la filosofia giapponese che non conosceva minimamente prima di arrivare nel paese del sol levante.
Quando quarant’anni fa
arrivò qui, trovò un Giappone molto più chiuso di oggi, sentendosi al contrario
subito come a casa.
Ci racconta del tempio, della reincarnazione in cui i buddisti credono. Veniva e viene tutt’ora spesso in questo tempio alla mattina alle sei per cercare la pace.
Antonio ha superato la
prova.
Meno male che la prova il calabrone non l’ha sottoposta a me…
Ci spostiamo quindi verso altri templi e poi nel parco Maruyama.
Mentre facciamo la
strada Sannenzaka, che significa a tre passi dal tempio, la guida ci mostra
l’ingresso di una casa il cui viale non è dritto, ma sinuoso, anche se solo per
pochi passi.
Ci ritroviamo in mezzo
a molta gente, ormai siamo sempre più vicini alla parte più visitata della
città. Infatti passiamo sotto alla
pagoda a cinque piani, una struttura in legno di circa 400 anni.
In pratica c’è un detto
che dice che se cadi su una di queste due strade avrai due o tre anni di
malasorte, questo perché per arrivare qui hai fatto così tanta strada (come
fanno a sapere che arriviamo dall’Italia?), che se poi cadi a tre o due passi
dalla meta... significa non era il caso di venirci…
Mentre saliamo la gente
aumenta sempre più di numero, è sabato pomeriggio e vanno tutti al tempio
Kiyomizu-Dera.
Nel frattempo
osserviamo il panorama. La guida ci indica dei grattacieli appena oltre le
montagne. Si tratta di Osaka che non è più lontana di cinquanta chilometri da
Kyoto.
Torniamo giù per le stradine vecchie, pulite e ordinate. Ora è arrivato il momento di andare a Gion, il quartiere delle Geishe, sperando di incontrarle per strada dopo che hanno terminato di lavorare.
Personalmente l’idea di andare a cercare queste donne per rubare loro qualche scatto, conoscendone la ritrosia, non mi fa impazzire. Per di più la guida raccomanda che, essendo molto riservate, bisogna cercare di non disturbarle. Se le si incontra si deve fare finta di nulla, del resto sono persone normali. Hanno scelto di fare la vita della geisha, ovvero dell’artista tradizionale giapponese.
Forse il loro fascino
in questi tempi moderni deriva dal fatto che ormai anche queste figure
tradizionali stanno scomparendo.
Da buoni stalker ci
appostiamo in una delle strade più frequentate da loro in trepida attesa. È
sera e le ombre si stanno allungando. Potrebbe essere difficile vederle perché
pare stiano preparando uno spettacolo teatrale e quindi potrebbero essere ancora
al lavoro.
Altre geishe non ne
vediamo, nemmeno piazzandoci davanti al ristorante dove probabilmente sono
andate tutte a mangiare. È sabato sera anche per loro.
Il locale è piccolo, ci
sarà da aspettare. Per il momento ci accomodiamo in otto ad un tavolo, sperando
che gli altri tre tavolini si liberino velocemente per gli altri rimasti fuori.
La pizza arriva ed è
anche più buona di quella di oggi. Nel frattempo gli altri tavolini si stanno
liberando, ma ad ogni suggerimento dato, i camerieri e Ciro rimangono sordi.
La pizza è napoletana,
la mentalità è giapponese: finché non si libereranno tutti i tavoli, non farà
entrare altri italiani.
Intuendo la situazione
mi alzo, lascio libero il mio posto per qualcun altro, come a Napoli, e porto a
casa Cassandra che nell’attesa si era già andata a procurare la cena ad un
Family Mart.
Gli altri impiegheranno
ancora un po' prima poter gustare la pizza, alla fine credo ne siano rimasti
contenti.
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