domenica 28 luglio 2024

Decimo giorno - Kyoto - Castello di Nijō - Tempio d’oro – Parco Maruyama – Sannenzaka/Ninenzaka – Kyiomizu-Dera - Gion


Visita guidata di Kyoto. La guida è italiana e di Roma, vive in Giappone da circa 40 anni.

È simpatica ma ci tiene a ricordarci le regole di comportamento che si dovrebbero tenere in Giappone: sui mezzi non si deve parlare a voce alta, perché molti ci si riposano tra una tappa e l’altra. Nei templi è vietato mangiare, bere e fumare, nonché fare foto quando è specificato, nei templi quasi sempre.

Non si può mangiare e bere neanche sui mezzi pubblici.

Quando si cammina per strada si va in fila per uno, sulle scale si tiene la sinistra e si sta sempre in fila. Alla fermata degli autobus ci si mette in fila.

Non ci si tocca. I giapponesi lo riterrebbero una mancanza di rispetto. Questo lo vedremo meglio dopo.

Dopo queste brevi premesse andiamo a vedere il castello di Nijō, la residenza dello shogun a Kyoto.

In realtà qui non ci veniva quasi mai perché lui viveva a Edo, che da quando divenne Shogun diventò la capitale.

Il castello di Nijō è diverso da quello di Himeji che si sviluppa verso l’alto, lo fa orizzontalmente.

Come tutti i luoghi sacri o antichi, quando si entra ci si deve togliere le scarpe.

A differenza del castello di Himeji, qui il legno cigola. Evidentemente devono ancora restaurarlo bene... Invece no! È fatto così volutamente e si chiama “pavimento dell’usignolo”, una tecnica di costruzione medievale giapponese. Grazie ad un sofisticato meccanismo a pressione, quando si cammina sulle assi del pavimento queste premono lievemente su dei chiodi che, scorrendo su una superficie metallica, emettono un cigolio, un cinguettio, quasi fosse quello di un usignolo. Ora che la guida ce lo ha spiegato, la trovo un'idea fantastica. In questo modo gli attacchi furtivi, anche quelli più silenziosi dei ninja, potevano essere sentiti. Ricordiamo le pareti erano fatte di legno e carta...

Verisure, spostate!

Le assi su cui stiamo camminando hanno 400 anni e il meccanismo funziona perfettamente.

Nelle stanze non ci sono mobili sebbene sia difficile immaginarlo. L’arredamento non deve essere molto differente da allora. La guida spiega che se avevano bisogno di qualcosa, per esempio un tavolino, lo andavano a prendere, lo usavano e lo rimettevano via.

In ogni caso quasi tutto era fatto a terra sul tatami, perfino scrivere.

Le prime sale che vediamo erano di rappresentanza e hanno dipinti sulle pareti delle tigri e germogli di bambù. La guida rivela che il dipinto rappresenta proprio aprile perché è in questo periodo che nascono i bambù marroni e appuntiti.

Le tigri però non le sapevano fare bene... In realtà erano dipinte in modo fantasioso perché non le avevano mai viste. Però le conoscevano e le scelsero per la loro fama: dovevano incutere timore e forza ai visitatori.

La stanza successiva invece aveva un solo pino dipinto, in un angolo. Simbolo di perseveranza e immortalità: i giapponesi nel pino ci vedono il drago. Questa doveva mostrare la forza dello Shogun.

Più ci addentriamo e più ci avviciniamo alle stanze dello Shogun.

Da qui in avanti tutte le pareti erano ricoperte da sottilissimi fogliettini d’oro. Alcune sono anche dipinte, il che mi fa venire in mente Klimt.

La prossima stanza ha anch’essa un pino con alcuni disegni di giochi d’acqua. Ci stiamo avvicinando alla sala delle udienze.

Sopra alle pareti si vedono disegni a intarsi nel legno, da cui passa l’aria tra una stanza e l’altra, in parte per evitare la muffa, soprattutto per poter sentire, origliare.

In questo modo però passa anche il caldo e il freddo.

La guida a tal proposito ci rivela un detto antico che recita:

A Kyoto rabbrividiamo e sudiamo.

Arriviamo quindi ad una stanza con le statue a grandezza naturale dello Shogun che abdica di fronte a molti samurai di famiglie diverse: questa è la stanza delle udienze.

In questa raffigurazione molto fedele si può vedere che solo un paggetto e lo Shogun potevano portare la spada.

C’erano anche le guardie, ma erano invisibili perché nascoste dietro le pareti di carta e sarebbero intervenute immediatamente in caso di pericolo.

Possiamo notare subito che tutti hanno un ventaglio. Questo è un oggetto singolare di cui mi sono sempre chiesto l’utilità, specie nei periodi invernali. La guida racconta che è come un’estensione della mano. Per non toccare o farsi toccare con le mani, si usavano i ventagli. In questo modo si indicava anche lo spazio personale entro il quale non si poteva andare. Era una forma di rispetto. Ecco da dove nasce il fatto che ancora oggi toccare una persona non è ben visto e mette a disagio.

Ora capisco perché quando si paga nei negozi c’è sempre il piattino dove mettere i soldi, non per colpa del covid, per rispetto.

Altro aspetto interessante da notare, era che lo Shogun è l’unico rappresentato a gambe incrociate, tutti gli altri sono inginocchiati.

Una cosa che mi sono sempre chiesto era perché si rasavamo la parte superiore della testa, per moda? Sembra di sì.

Invece il codino annodato sulla parte rasata serviva semplicemente per attutire la pressione l’elmo da guerra.

Proseguiamo nella visita e arriviamo alla terza stanza dove è dipinto un pino sulle pareti, poi alberi più piccoli con il mare e una pineta, e infine ciliegi con aironi.

C’è poi anche un’altra sala delle udienze, questa era per solo i suoi alleati prima che lo Shogun diventasse Shogun, quindi solo per le persone fidate che già prima gli erano fedeli.

In un’altra stanza sono dipinti un ciliegio tardivo, fagiani e le pareti sono ricche di decorazioni dorate.

In ogni stanza dove stava lo Shogun c’erano sempre guardie nascoste, sebbene qui potessero entrare solo gli alleati più fidati. Fidarsi è bene, non fidarsi, non è giapponese.

Nelle stanze private non si può entrare oggi perché una signora antipatica dice che ci sono troppi gruppi ed è chiuso.

Arigatoni!!!

Non rimane che proseguire la visita nelle altre stanze con le peonie dorate e quella dei falchi. Lo Shogun adorava i falchi.

Tokugawa infatti, dopo essere stato cremato, voleva che le sue ceneri fossero sparse per i monti di Nikko, dove andava a caccia con i suoi falchi.

C’è poi la stanza dorata con solo cinque alberi disegnati in un solo angolo, come a dare un senso di profondità.

Infine la Sala delle udienze del messaggero dell’imperatore.

Di solito il messaggero imperiale era considerato come l’imperatore stesso.

In questo caso lo Shogun doveva sedersi più in basso rispetto al messaggero.

Terminata la visita al castello, la guida ci porta a vedere velocemente il Giardino con il laghetto in cui cerca di spiegarci a grandi linee il senso o la filosofia dello zen introducendoci a questo modo di pensare e costruire: i giapponesi non si staccano mai dalla natura. Quando realizzano giardini è per riprodurre la natura stessa. Nel giardino di questo castello all’inizio non c’era nemmeno l’acqua che vediamo oggi nel lago. C’era solo ghiaia che riproduceva le onde dell’acqua attorno ai sassi e alberi posizionati nel mezzo.

Rocce e alberi rappresentano gli dei. Ogni roccia può rappresentare qualcosa di diverso.

È un giardino astratto, le rocce possono simboleggiare isole che emergono dalle nuvole o dal mare.

Il senso del giardino è quello di calmare l’animo.

La guida chiede se siamo stati al tempio Ryoan-ji, dove c’è quel giardino zen con 15 pietre, ma che da qualunque angolazione le si guardi se ne possono vedere solo 14. Quella composizione serve per far pensare, è un rompicapo per far aprire la mente e far ragionare.

Spiega anche che il muro di argilla cotta con l’olio prende un colore che fa emergere la bellezza delle cose che sfioriscono, la malinconia, ma con un fine positivo. Un po’ come quando si guardano i ruderi di qualche antica struttura, che non è certamente bella come appena costruita, tutt’altro, ma cercando di immaginare come era una volta, si viene abbracciati da una malinconia positiva che ci fa desiderare di vederla integra e, allo stesso tempo, la fa apprezzare così come è ora.

Per lo meno io la interpreto così…

Diciamo che un discorso del genere meriterebbe più tempo, ma siamo in vacanza, accantoniamo la filosofia, per il momento.

Terminata la visita al castello prendiamo un autobus per andare a vedere il famoso tempio d’oro, il Kinkaku-ji.

In realtà la traduzione letterale sarebbe Padiglione d’oro.


Si tratta di una struttura a tre piani, il primo in legno, gli altri due invece sono ricoperti d’oro. Per le dimensioni i primi due piani sono uguali, l’ultimo è una stanza più piccola di sette metri per sette.

Il padiglione è adagiato in mezzo ad un laghetto assieme a qualche isolotto sormontato da pietre e pini che sembrano bonsai. Ovviamente non ci si può entrare. Ci viene detto che nei primi due piani ci sono delle statue buddiste, il terzo è vuoto.


Qui gli Shogun facevano cerimonie del the e bevevano Sake guardando il giardino e la luna.

Quello di oggi purtroppo è una copia dell’originale perché un monaco, con problemi mentali, gli ha dato fuoco nel 1300. Ovviamente è stato subito ricostruito allo stesso modo.

Il giardino è stato creato con il metodo Shakkei: significa prendere in prestito il paesaggio circostante.

Da qualunque posizione guardiamo il giardino, la montagna è come se facesse parte del giardino stesso. La montagna è stata presa in prestito.

Attraversiamo il giardino fino al punto in cui la guida mostra un pino particolare che ha 600 anni. È sorretto da una grata di legno per non farlo rompere. Spiega anche come venivano fatti i muri in antichità: file di fascine di piccoli bambù tenuti assieme da lacci neri e ricoperti con l’intonaco. Semplice ma fragile, soprattutto per le piogge. Ecco spiegato perché anche i muri più bassi sono ricoperti da tetti di tegole, per non farli bagnare con la pioggia.

Una volta riparati dalla pioggia risultavano molto resistenti, soprattutto ai terremoti grazie alla flessibilità delle fascine interne.

Fuori dal castello prendiamo un altro autobus. Essendo ora di pranzo entriamo in un supermercato così da recuperare qualcosa al volo. Io e Cassandra abbiamo già il necessario per cui prendo solo una bella birra fredda, poi sento profetizzare da Cassandra che qui vicino ci dovrebbe essere Ciro, un pizzaiolo che ho visto su youtube e anche Antonio lo conosce. Già il nome è una garanzia e per una pizza dopo una settimana di astinenza mi accontenterei anche di quella fatta da un Brambilla Fumagalli Scaccabarozzi qualunque. Senza pensarci troppo io e Antonio scappiamo per vedere se lo troviamo. Secondo la mappa è proprio dietro l’ang…

Eccolo!

Ciro è giapponese, ha vissuto e lavorato 15 anni a Napoli. Va benissimo, non parla italiano, parla il napoletano.

Ci facciamo fare una pizza al volo da asporto e facendoci dare la posizione internet con google maps raggiungiamo gli altri sulla passeggiata del filosofo, un sentiero che costeggia un ruscello tra le case all’ombra degli alberi e al cospetto delle montagne.

Ci fermiamo a mangiare in un parchetto.

Assaggio una fetta di pizza assieme agli altri e posso testimoniare che la pizza è buonissima.

Con la guida, già grande amante della pizza di Ciro, organizziamo per tornarci tutti stasera a cena.


Terminata la pausa, andiamo a visitare il tempio Honen in un’oasi di pace e tranquillità ai piedi della montagna. Qui la guida si apre un pochino rivelandoci come ha abbracciato la filosofia giapponese che non conosceva minimamente prima di arrivare nel paese del sol levante.

Quando quarant’anni fa arrivò qui, trovò un Giappone molto più chiuso di oggi, sentendosi al contrario subito come a casa.

Ci racconta del tempio, della reincarnazione in cui i buddisti credono. Veniva e viene tutt’ora spesso in questo tempio alla mattina alle sei per cercare la pace.

Proprio mentre parla di pace e siamo immersi nel giardino, dove ci sono anche molti fiori, appare dal nulla un calabrone giapponese, uno di quei mostri giganti che a vederlo sembra uscito da un film catastrofico. Si mette a svolazzare attorno ad Antonio e la guida lo avvisa di stare immobile, se si muovesse di scatto potrebbe essere molto pericoloso. Antonio sta fermo e dopo qualche interminabile secondo di volo ad un palmo di naso, il calabrone se ne va.

Antonio ha superato la prova.

Meno male che la prova il calabrone non l’ha sottoposta a me…

Usciti dal tempio andiamo verso la zona dei grandi templi. Prima però entriamo al grande tempio Chion-ji con le effigi dello Shogun che spiccano ovunque. Giusto appena prima che chiuda. Facciamo in tempo a vederlo qualche minuto aperto mentre fanno le pulizie.

Ci spostiamo quindi verso altri templi e poi nel parco Maruyama.

Siamo sopra il quartiere di Gion ed è la parte più caratteristica di Kyoto, con case e vicoli come erano una volta, per non parlare dei templi che spuntano un po’ ovunque.

Mentre facciamo la strada Sannenzaka, che significa a tre passi dal tempio, la guida ci mostra l’ingresso di una casa il cui viale non è dritto, ma sinuoso, anche se solo per pochi passi.

Ci ritroviamo in mezzo a molta gente, ormai siamo sempre più vicini alla parte più visitata della città.  Infatti passiamo sotto alla pagoda a cinque piani, una struttura in legno di circa 400 anni.


Dalla Sannenzaka saliamo sulla Ninenzaka, che significa a due passi dal tempio.

In pratica c’è un detto che dice che se cadi su una di queste due strade avrai due o tre anni di malasorte, questo perché per arrivare qui hai fatto così tanta strada (come fanno a sapere che arriviamo dall’Italia?), che se poi cadi a tre o due passi dalla meta... significa non era il caso di venirci…

Mentre saliamo la gente aumenta sempre più di numero, è sabato pomeriggio e vanno tutti al tempio Kiyomizu-Dera.

 

Saliamo le terrazze da dove c’è una visita bellissima di Kyoto dall’alto, ma al tempio non entriamo perché mancano pochi minuti alla chiusura e rischieremmo di non vedere niente.

Nel frattempo

osserviamo il panorama. La guida ci indica dei grattacieli appena oltre le montagne. Si tratta di Osaka che non è più lontana di cinquanta chilometri da Kyoto.

Torniamo giù per le stradine vecchie, pulite e ordinate. Ora è arrivato il momento di andare a Gion, il quartiere delle Geishe, sperando di incontrarle per strada dopo che hanno terminato di lavorare.


Personalmente l’idea di andare a cercare queste donne per rubare loro qualche scatto, conoscendone la ritrosia, non mi fa impazzire. Per di più la guida raccomanda che, essendo molto riservate, bisogna cercare di non disturbarle. Se le si incontra si deve fare finta di nulla, del resto sono persone normali. Hanno scelto di fare la vita della geisha, ovvero dell’artista tradizionale giapponese.

Prima di partire leggevo una notizia che volevano chiudere il quartiere di Gion ai turisti, a causa dei turisti… in particolare gli italiani… e ho detto tutto…

Forse il loro fascino in questi tempi moderni deriva dal fatto che ormai anche queste figure tradizionali stanno scomparendo.

Da buoni stalker ci appostiamo in una delle strade più frequentate da loro in trepida attesa. È sera e le ombre si stanno allungando. Potrebbe essere difficile vederle perché pare stiano preparando uno spettacolo teatrale e quindi potrebbero essere ancora al lavoro.


Dopo lunga attesa ne vediamo una che forse non è proprio una geisha, è di mezza età e non è truccata. Non è quindi una maiko, la geisha apprendista, essendo più avanti negli anni probabilmente ha già fatto la sua carriera ed ora avrà in gestione delle attività commerciali. Probabilmente sponsorizza anche una maiko, chissà.

Altre geishe non ne vediamo, nemmeno piazzandoci davanti al ristorante dove probabilmente sono andate tutte a mangiare. È sabato sera anche per loro.


Con la macchina fotografica senza scatti di geishe torniamo indietro prendendo un autobus che ci riporti da Ciro.

Il locale è piccolo, ci sarà da aspettare. Per il momento ci accomodiamo in otto ad un tavolo, sperando che gli altri tre tavolini si liberino velocemente per gli altri rimasti fuori.

La pizza arriva ed è anche più buona di quella di oggi. Nel frattempo gli altri tavolini si stanno liberando, ma ad ogni suggerimento dato, i camerieri e Ciro rimangono sordi.

La pizza è napoletana, la mentalità è giapponese: finché non si libereranno tutti i tavoli, non farà entrare altri italiani.

Intuendo la situazione mi alzo, lascio libero il mio posto per qualcun altro, come a Napoli, e porto a casa Cassandra che nell’attesa si era già andata a procurare la cena ad un Family Mart.

Gli altri impiegheranno ancora un po' prima poter gustare la pizza, alla fine credo ne siano rimasti contenti.

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