domenica 17 giugno 2018

Giorno 8 – Petra

Alle 7:30 usciamo dall’hotel e in pochi minuti stiamo già camminando spediti lungo i primi 800 metri di sterrato completamente al sole. Fa già abbastanza caldo. Lungo la strada iniziano a vedersi alcune costruzioni nabatee e alcune tombe. Una in particolare è molto grande e sormontata da quattro obelischi. Anche ai nabatei, come i romani (vedi Piramide di Caio Cestio), piaceva viaggiare e imparare. Gli obelischi furono una delle tante cose che apprezzarono della cultura egiziana e il proprietario di questa tomba lo dimostra facendosene fare perfino quattro.
Poco più avanti ci sono anche strutture cubiche che i beduini identificavano come le case dei Jinn. I Jinn per loro erano dei demoni. Tra l’altro la parola Jinn a noi non è del tutto sconosciuta, anzi. Il Genio della lampada era un Jinn. Va be non divaghiamo troppo altrimenti vi porterei in un altro posto che ho visitato solo con la mente, per ora.
Terminati i primi 800 metri arriviamo all’inizio del Siq, la stretta e profonda gola lunga 1200 metri che porta alla città di Petra. Prima però notiamo che a fianco dello sterrato, appena prima del Siq, c’è un canale che finisce in una galleria. Questa fu scavata dai nabatei per evitare che l’acqua piovana inondasse il Siq.
In questo modo l’acqua veniva indirizzata verso una serie di canali, cisterne e dighe che permettevano alla città di conservare e utilizzare ogni singola goccia d’acqua a disposizione. Era un sistema idrico incredibile che permise alla città di prosperare nonostante la fortissima carenza di acqua della zona.
Scendiamo nel Siq, dove vediamo di tanto in tanto dighe, altarini e canali che scendono verso il basso dalle cime della gola per indirizzare l’acqua piovana e l’acqua potabile.
Camminare qui in mezzo, all'ombra, mi lascia dentro un senso di meraviglia che in poche altre occasioni ho provato. Qui la famosa cooperativa vento, acqua e sabbia ha creato un capolavoro, dotandolo di forme straordinarie e colorandolo con tinte da perdere la testa e farsi venire il torcicollo per quanto ci si guardi in giro a 360 gradi.
La gola si stringe sempre più finché, proprio a ridosso di un canale dell'acqua incontriamo la scultura di una carovana di cammelli. Anche se quasi irriconoscibili gli animali sono altissimi, almeno tre metri. Questo era solo un altro dei biglietti da visita della città per chi vi giungeva dalla incredibile e spettacolare via. Quando Spielberg ci ha girato “Indiana Jones e l’ultima crociata”, ha fatto conoscere al mondo questo posto fantastico, ma ha solo raccolto le briciole di ciò che è rimasto, di quella che ai sui tempi doveva essere una delle città più belle e ricche del mondo.

Quando il sinuoso Siq finisce, ecco spuntare la meravigliosa ed imponente facciata del Tesoro. Sembra davvero di essere nel film e che da un momento all’altro spunti Indiana Jones.
Uno dei miei sogni si è avverato.
Anche se lo chiamano così, in realtà questo non ha nulla a che vedere con un tesoro, è semplicemente la tomba del più grande re dei nabatei, Areta IV.
È stata chiamata così perché quando i beduini la riscoprirono pensarono che dentro ci fosse un tesoro. Per cercarlo distrussero a colpi di fucile le statue che la adornano. Si vedono ancora molto bene i buchi lasciati dagli spari.
Questa è solo la prima tomba che vediamo, ma Zu ci spiega che venivano costruite tutte allo stesso modo, scavando dall’alto verso il basso. Quindi senza nessuna possibilità di errore. Inoltre, invece di scolpire tutto, intagliavano grossi blocchi rettangolari, dei mattoni giganteschi, e poi li buttavano giù. In questo modo avevano anche il materiale di costruzione per altre strutture. Praticamente la città era una cava a chilometro zero.
Il massimo splendore i nabatei lo raggiunsero proprio con Areta IV, che governò per circa 50 anni a cavallo tra il 9 a.C. e il 40 d.C.
Erano dei commercianti così abili che la ricchezza della città non aveva eguali. Per questo motivo Roma decise di annetterla, per impossessarsi anche delle sue rotte commerciali.
Così da città nabatea di nome Reqem, la variopinta, divenne Petra, conservando così quel nome che in greco significa roccia.
La roccia di Petra è ciò che più mi ha colpito e lasciato colmo di meraviglia: è un mix di colori, prevalentemente rosso, che si mischiano in forme e disegni incredibili. Intere pareti di montagna, in cui sono scolpite tombe, case e perfino l’anfiteatro, sono un amalgama da sogno.

Rosso, bordeaux, giallo, bianco, nero, arancione, rosa, grigio e sabbia, disegnano nuvole, onde e cascate.


Sono molte le parti della montagna rimaste scoperte, come se il tempo avesse corroso la sua pelle per mostrare cosa c’è davvero sotto, quasi prendesse vita e dimostrasse di avere degli organi al posto delle pietre, come dovrebbe essere. Un po’ il contrario di quando si dice ad un uomo che ha il cuore di pietra.


Seguiamo Zu nel giro, ascoltando le sue parole, ma io continuo a guardare Cassandra con un sorriso nabateo, che mi restituisce estasiata, come a volerle dire ogni volta: ma in che sogno siamo finiti?
Visitiamo le tombe reali, poi la chiesa bizantina, quindi si fa tappa al ristorante.
Eh no! Io non mi fermo qua, non riesco a resistere al richiamo della città. Basta uno sguardo d’intesa con Cassandra, salutiamo tutti e già siamo in salita per raggiungere il monastero.
L'ascesa nelle gole, nonostante la miriade di bancarelle, per fortuna deserte a causa dell’ora più calda e del ramadan, sembra un viaggio al centro della terra percorso al contrario. La scalinata che si apre tra le montagne colorate è bellissima, però dopo solo mezz’ora arriviamo a destinazione. Quasi ci dispiace.
Eccolo il monastero.
Si tratta di un’altra tomba, probabilmente più grande del Tesoro, ma meno rifinita e decorata. Viene chiamata così perché in epoca romana bizantina lo utilizzarono come monastero inglobandolo in un'altra struttura che oggi non esiste più.
Con questa meravigliosa cornice davanti, possiamo sederci e mangiare il nostro pranzo anche noi.
Troviamo un posticino all’ombra e ci sediamo su delle rocce colorate dove, tra un boccone e l’altro, scorgo dei segni sulla roccia. Sembrerebbero geroglifici, ma sarebbe una scoperta troppo facile da fare. Figuriamoci se sono proprio io il primo a trovarli, evidentemente sono solo segni fatti dai beduini. Chissà...
Terminata la pausa pranzo ci rialziamo, la visita non è ancora finita, ci rimangono da vedere un sacco di altre cose. Scendiamo gli scalini schivando i muli che salgono e scendono lasciando sul selciato le tracce del loro passaggio, soprattutto il cattivo odore. Ma noi siamo distratti dalle montagne colorate e dalle sue forme. A metà della discesa non ci dimentichiamo di fermarci ad una piccola insenatura sulla destra che sfocia nella tomba dei due leoni, piccolina ma carina. Valeva la pena vederla.
Riprendiamo la discesa e finalmente arriviamo a terra, passiamo il ristorante e ci troviamo di fronte all’unico edificio natabeo rimasto in piedi dopo il gran terremoto. Difatti noi oggi vediamo solo i resti dei templi e delle tombe, ma tra questi c’erano un'infinità di case, tutte crollate, e su cui oggi camminiamo. Sono ancora tutte là, con molte delle cose che contenevano. Basta guardare per terra, in qualunque direzione, per vedere pezzi di terracotta, ceramica, tegole. Senza volerlo perfino io sono inciampato due volte su due manici di qualcosa che potevano essere delle brocche o dei vasi.
Più ci avviciniamo e più vediamo quanto è grande l'edificio nabateo rimasto in piedi. Probabilmente ha resistito al tempo e i terremoti perché nel mezzo delle sue pareti furono inserite delle assi di legno. In questo modo l’elasticità del legno ha consentito all’edificio di non crollare.
Il legno è ancora là, incastonato tra i grandi massi.
Prima di proseguire saliamo sulla collina a sinistra dove c'è il Tempio dei leoni alati. È proprio quello che ha restaurato Franco, l'archeologo che abbiamo conosciuto a Madaba. Dopo aver constatato l'ottimo lavoro, soprattutto considerando il pochissimo materiale a disposizione, riscendiamo in basso.

Entriamo nell’agorà costruita dai romani e quindi passiamo sotto quello che era un grande arco, punto di inizio del cardo. Su entrambi i lati della grande strada lastricata, come sempre c’erano tutti i negozi e le botteghe, nonché gli ingressi dei templi.
C’era però anche il grande tempio. Salendo dal cardo le sue scalinate, il grande tempio nabateo dominava tutta la città. Nel livello più alto c'è una struttura che sembra un piccolo auditorium e qualche metro sulla destra, in un corridoio, ci sono ancora tracce colorate di affreschi. Tracce molto leggere, ma ancora visibili. Ricordando le parole di Franco, mi viene da pensare che in Italia le avrebbero giustamente messe in una teca.
Percorriamo tutto il cardo fino all’albero di pistacchio, nato sul ninfeo, e a questo punto iniziamo a sentire il caldo.

Il sole è stato tutto il giorno fortissimo e al sole non ci si sarebbe potuti stare. Noi siamo stati talmente ipnotizzati dalla città che solo ora iniziamo a sentirne le conseguenze. Anche bere l’acqua che ci siamo portati non dà alcun sollievo perché è calda come the appena fatto. Ad ogni sorsata ci sentiamo sempre più beduini.
All’altezza del teatro riprendiamo un pochino fiato perché la sua maestosità ci distrae, ma poi ripiombiamo nella stanchezza.
All’ombra troviamo sollievo e al passaggio dal Tesoro veniamo nuovamente storditi dalla sua bellezza, quindi come alla fine di Indiana Jones riprendiamo il Siq.

Peccato che invece dei titoli di coda ci aspettano altri due chilometri di salita, con gli ultimi 800 metri completamente al sole.
Arriviamo in hotel devastati alle 16:30, ora sì che possono partire i nostri titoli di coda e le luci si spengono.

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