Alle
7:30 usciamo dall’hotel e in pochi minuti stiamo già camminando
spediti lungo i primi 800 metri di sterrato completamente al sole. Fa
già abbastanza caldo. Lungo la strada iniziano a vedersi alcune
costruzioni nabatee e alcune tombe. Una in particolare è molto
grande e sormontata da quattro obelischi. Anche ai nabatei, come i
romani (vedi Piramide di Caio Cestio), piaceva viaggiare e imparare.
Gli obelischi furono una delle tante cose che apprezzarono della
cultura egiziana e il proprietario di questa tomba lo dimostra
facendosene fare perfino quattro.
Poco
più avanti ci sono anche strutture cubiche che i beduini
identificavano come le case dei Jinn. I Jinn per loro erano dei
demoni. Tra l’altro la parola Jinn a noi non è del tutto
sconosciuta, anzi. Il Genio della lampada era un Jinn. Va be non
divaghiamo troppo altrimenti vi porterei in un altro posto che ho
visitato solo con la mente, per ora.
Terminati
i primi 800 metri arriviamo all’inizio del Siq, la stretta e
profonda gola lunga 1200 metri che porta alla città di Petra. Prima
però notiamo che a fianco dello sterrato, appena prima del Siq, c’è
un canale che finisce in una galleria. Questa fu scavata dai nabatei
per evitare che l’acqua piovana inondasse il Siq.
In questo modo
l’acqua veniva indirizzata verso una serie di canali, cisterne e
dighe che permettevano alla città di conservare e utilizzare ogni
singola goccia d’acqua a disposizione. Era un sistema idrico
incredibile che permise alla città di prosperare nonostante la
fortissima carenza di acqua della zona.
Scendiamo
nel Siq, dove vediamo di tanto in tanto dighe, altarini e canali che
scendono verso il basso dalle cime della gola per indirizzare l’acqua
piovana e l’acqua potabile.
Camminare
qui in mezzo, all'ombra, mi lascia dentro un senso di meraviglia che
in poche altre occasioni ho provato. Qui la famosa cooperativa vento,
acqua e sabbia ha creato un capolavoro, dotandolo di forme
straordinarie e colorandolo con tinte da perdere la testa e farsi
venire il torcicollo per quanto ci si guardi in giro a 360 gradi.
La
gola si stringe sempre più finché, proprio a ridosso di un canale
dell'acqua incontriamo la scultura di una carovana di cammelli. Anche
se quasi irriconoscibili gli animali sono altissimi, almeno tre
metri. Questo era solo un altro dei biglietti da visita della città
per chi vi giungeva dalla incredibile e spettacolare via. Quando
Spielberg ci ha girato “Indiana Jones e l’ultima crociata”, ha
fatto conoscere al mondo questo posto fantastico, ma ha solo raccolto
le briciole di ciò che è rimasto, di quella che ai sui tempi doveva
essere una delle città più belle e ricche del mondo.
Quando
il sinuoso Siq finisce, ecco spuntare la meravigliosa ed imponente
facciata del Tesoro. Sembra davvero di essere nel film e che da un
momento all’altro spunti Indiana Jones.
Uno
dei miei sogni si è avverato.
Anche
se lo chiamano così, in realtà questo non ha nulla a che vedere con
un tesoro, è semplicemente la tomba del più grande re dei nabatei,
Areta IV.
È
stata chiamata così perché quando i beduini la riscoprirono
pensarono che dentro ci fosse un tesoro. Per cercarlo distrussero a
colpi di fucile le statue che la adornano. Si vedono ancora molto
bene i buchi lasciati dagli spari.
Questa
è solo la prima tomba che vediamo, ma Zu ci spiega che venivano
costruite tutte allo stesso modo, scavando dall’alto verso il
basso. Quindi senza nessuna possibilità di errore. Inoltre, invece
di scolpire tutto, intagliavano grossi blocchi rettangolari, dei
mattoni giganteschi, e poi li buttavano giù. In questo modo avevano
anche il materiale di costruzione per altre strutture. Praticamente
la città era una cava a chilometro zero.
Il
massimo splendore i nabatei lo raggiunsero proprio con Areta IV, che
governò per circa 50 anni a cavallo tra il 9 a.C. e il 40 d.C.
Erano
dei commercianti così abili che la ricchezza della città non aveva
eguali. Per questo motivo Roma decise di annetterla, per
impossessarsi anche delle sue rotte commerciali.
Così
da città nabatea di nome Reqem, la variopinta, divenne Petra,
conservando così quel nome che in greco significa roccia.
La
roccia di Petra è ciò che più mi ha colpito e lasciato colmo di
meraviglia: è un mix di colori, prevalentemente rosso, che si
mischiano in forme e disegni incredibili. Intere pareti di montagna,
in cui sono scolpite tombe, case e perfino l’anfiteatro, sono un
amalgama da sogno.
Rosso,
bordeaux, giallo, bianco, nero, arancione, rosa, grigio e sabbia,
disegnano nuvole, onde e cascate.
Sono
molte le parti della montagna rimaste scoperte, come se il tempo
avesse corroso la sua pelle per mostrare cosa c’è davvero sotto,
quasi prendesse vita e dimostrasse di avere degli organi al posto
delle pietre, come dovrebbe essere. Un po’ il contrario di quando
si dice ad un uomo che ha il cuore di pietra.
Seguiamo
Zu nel giro, ascoltando le sue parole, ma io continuo a guardare
Cassandra con un sorriso nabateo, che mi restituisce estasiata, come
a volerle dire ogni volta: ma in che sogno siamo finiti?
Visitiamo
le tombe reali, poi la chiesa bizantina, quindi si fa tappa al
ristorante.
Eh
no! Io non mi fermo qua, non riesco a resistere al richiamo della
città. Basta uno sguardo d’intesa con Cassandra, salutiamo tutti e
già siamo in salita per raggiungere il monastero.
L'ascesa
nelle gole, nonostante la miriade di bancarelle, per fortuna deserte
a causa dell’ora più calda e del ramadan, sembra un viaggio al
centro della terra percorso al contrario. La scalinata che si apre
tra le montagne colorate è bellissima, però dopo solo mezz’ora
arriviamo a destinazione. Quasi ci dispiace.
Eccolo
il monastero.
Si
tratta di un’altra tomba, probabilmente più grande del Tesoro, ma
meno rifinita e decorata. Viene chiamata così perché in epoca
romana bizantina lo utilizzarono come monastero inglobandolo in
un'altra struttura che oggi non esiste più.
Con
questa meravigliosa cornice davanti, possiamo sederci e mangiare il
nostro pranzo anche noi.
Troviamo
un posticino all’ombra e ci sediamo su delle rocce colorate dove,
tra un boccone e l’altro, scorgo dei segni sulla roccia.
Sembrerebbero geroglifici, ma sarebbe una scoperta troppo facile da
fare. Figuriamoci se sono proprio io il primo a trovarli,
evidentemente sono solo segni fatti dai beduini. Chissà...
Terminata
la pausa pranzo ci rialziamo, la visita non è ancora finita, ci
rimangono da vedere un sacco di altre cose. Scendiamo gli scalini
schivando i muli che salgono e scendono lasciando sul selciato le
tracce del loro passaggio, soprattutto il cattivo odore. Ma noi siamo
distratti dalle montagne colorate e dalle sue forme. A metà della
discesa non ci dimentichiamo di fermarci ad una piccola insenatura
sulla destra che sfocia nella tomba dei due leoni, piccolina ma
carina. Valeva la pena vederla.
Riprendiamo
la discesa e finalmente arriviamo a terra, passiamo il ristorante e
ci troviamo di fronte all’unico edificio natabeo rimasto in piedi
dopo il gran terremoto. Difatti noi oggi vediamo solo i resti dei
templi e delle tombe, ma tra questi c’erano un'infinità di case,
tutte crollate, e su cui oggi camminiamo. Sono ancora tutte là, con
molte delle cose che contenevano. Basta guardare per terra, in
qualunque direzione, per vedere pezzi di terracotta, ceramica,
tegole. Senza volerlo perfino io sono inciampato due volte su due
manici di qualcosa che potevano essere delle brocche o dei vasi.
Più
ci avviciniamo e più vediamo quanto è grande l'edificio nabateo
rimasto in piedi. Probabilmente ha resistito al tempo e i terremoti
perché nel mezzo delle sue pareti furono inserite delle assi di
legno. In questo modo l’elasticità del legno ha consentito
all’edificio di non crollare.
Il
legno è ancora là, incastonato tra i grandi massi.
Prima
di proseguire saliamo sulla collina a sinistra dove c'è il Tempio
dei leoni alati. È proprio quello che ha restaurato Franco,
l'archeologo che abbiamo conosciuto a Madaba. Dopo aver constatato
l'ottimo lavoro, soprattutto considerando il pochissimo materiale a
disposizione, riscendiamo in basso.
Entriamo
nell’agorà costruita dai romani e quindi passiamo sotto quello che
era un grande arco, punto di inizio del cardo. Su entrambi i lati
della grande strada lastricata, come sempre c’erano tutti i negozi
e le botteghe, nonché gli ingressi dei templi.
C’era
però anche il grande tempio. Salendo dal cardo le sue scalinate, il
grande tempio nabateo dominava tutta la città. Nel livello più alto
c'è una struttura che sembra un piccolo auditorium e qualche metro
sulla destra, in un corridoio, ci sono ancora tracce colorate di
affreschi. Tracce molto leggere, ma ancora visibili. Ricordando le
parole di Franco, mi viene da pensare che in Italia le avrebbero
giustamente messe in una teca.
Percorriamo
tutto il cardo fino all’albero di pistacchio, nato sul ninfeo, e a
questo punto iniziamo a sentire il caldo.
Il
sole è stato tutto il giorno fortissimo e al sole non ci si sarebbe
potuti stare. Noi siamo stati talmente ipnotizzati dalla città che
solo ora iniziamo a sentirne le conseguenze. Anche bere l’acqua che
ci siamo portati non dà alcun sollievo perché è calda come the
appena fatto. Ad ogni sorsata ci sentiamo sempre più beduini.
All’altezza
del teatro riprendiamo un pochino fiato perché la sua maestosità ci
distrae, ma poi ripiombiamo nella stanchezza.
All’ombra
troviamo sollievo e al passaggio dal Tesoro veniamo nuovamente
storditi dalla sua bellezza, quindi come alla fine di Indiana Jones
riprendiamo il Siq.
Peccato
che invece dei titoli di coda ci aspettano altri due chilometri di
salita, con gli ultimi 800 metri completamente al sole.
Arriviamo
in hotel devastati alle 16:30, ora sì che possono partire i nostri
titoli di coda e le luci si spengono.