Sveglia alle 4 oggi. Del resto
se ieri ho detto che stiamo vivendo una versione fresca di un safari, i tempi
sono questi. Comunque lo sapevamo per cui non è un gran problema, anzi. Per
quanto mi riguarda sono bello sveglio e contento di partire. La prima notte in
questa casa assurda è stata molto riposante. Forse la prima vera dormita
dall’inizio del viaggio.
Insomma, oggi partiamo presto
perché la destinazione è il Wrangell - St. Elias, che con i suoi 5,3 milioni di
ettari, è il parco nazionale più grande d'America. Composto da quattro catene
montuose, un ghiacciaio grande quasi quanto la Val d'Aosta e migliaia di
chilometri di coste selvagge, ovviamente non vedremo tutto il parco in un solo
giorno. La nostra meta è Kennecot, la città mineraria abbandonata nel 1938, da
dove partiremo per la ramponata sul ghiacciaio Sant Elias.
La strada è lunga, circa tre
ore, e l’appuntamento è fissato per le 8,30. Ecco svelato il motivo per cui ci
siamo dovuti alzare presto. Essendo giugno solo l’inizio del periodo estivo, e
quindi con scarso afflusso di turisti, le ramponate partono solo alle 9 del
mattino, mentre a luglio ed agosto ne parte una anche subito dopo pranzo.
In ogni caso se avessimo
partecipato a quella del pomeriggio poi saremmo rientrati a casa tardissimo,
per cui forse è meglio così.
A poco meno di un’ora dalla
partenza arriviamo in una zona verdissima di montagne e laghetti che corrono
lungo la strada riflettendo il verde come fossero miniere di smeraldi a cielo
aperto.
È qui che incontriamo per la
prima volta le aquile calve, simbolo degli Stati Uniti. Il fiero animale ci sorvola
per qualche secondo e poi si posa sulla cima di un altissimo pino. Guardandoci
dall’alto della sua superbia usa la distanza come uno scudo.
Sarà anche in alto, ma non mi
può sfuggire, o per lo meno non può sfuggire allo zoom della mia piccola
macchinetta fotografica. Mentre la inquadro si vede bene che ha capito. Ha
capito che noi abbiamo capito. Fa la vaga, ma in fondo si sente un po’ diva e
si lascia fotografare.
Dopo l’ultimo scatto le lascio
il mio biglietto da visita con un “le faremo sapere”, quindi proseguiamo, la
strada è lunga.
Giunti in riva all’alveo di un
grandissimo fiume, ci sono decine di pescatori all’opera, ma anche tante aquile
che attendono qualche resto comodo.
Attraversato il ponte inizia
il tanto temuto sterrato.
L'unica strada che arriva a
Kennecot da Copper Center è una delle più famose dell'Alaska: la McCarty road.
Un tracciato tutto sterrato per il quale nessuna compagnia di noleggio risponde
per eventuali danni provocati alla vettura. Per questo motivo non ci potremmo
andare.
Come la maggior parte dei
turisti facciamo finta di nulla e la imbocchiamo tranquillamente.
Sarà una strada sterrata dalla
pessima fama, ma confronto a certe strade tra Torre Spaccata e la Romanina...
sembra il panno verde di un biliardo.
L'unico problema sono i
conigli. Ogni due o trecento metri troviamo gruppetti di conigli che brucano
l'erba a bordo strada. La maggior parte di essi ha le spalle rivolte alle
eventuali vetture. Il Pier, con il suo passato da camionista, va piano per
evitare che qualche creatura gli salti in mezzo alla carreggiata.
Difatti non sono pochi quelli
che tentano il suicidio, ma per fortuna questi jack rabbit sono sì stupidi, ma
veloci.
Con tutti questi animaletti
che vivacchiano sulla strada ci viene spontaneo pensare a quante altre specie
ci siano nascosti dagli alberi, probabilmente orsi, volpi e... Lupulalà! Eccululà!
Non sono sicuro che fosse
proprio un lupo perché era di spalle e lo abbiamo visto per un paio di secondi
appena, però era un canide grigio con la coda più scura. Se non era un lupo era
una volpe, comunque un predatore in cerca di conigli da colazione.
Proseguiamo cercando di tenere
gli occhi aperti, ma il sonno ogni tanto ci tradisce. Si viaggia così finché
non arriviamo ad un antico ponte di legno che sembra uscito da un film degli
anni ‘40. Ad un'altezza considerevole, circa venti o trenta metri, non saprei
valutare dalla distanza a cui siamo, le vecchissime travi di legno annerito che
sostenevano la ferrovia, seguono la strada fino ad una gola attraversandola e
girando verso destra. Probabilmente è rimasto così proprio dagli anni ‘40,
periodo dell'abbandono della città mineraria. È ancora fantastico e molto
suggestivo.
Quando arriviamo finalmente a
destinazione parcheggiamo e aspettiamo che ci vengano a prendere le guide.
L'appuntamento è dall'altra
parte del fiume, raggiungibile solo tramite un ponte ciclopedonale.
Una volta attraversato non
dobbiamo attendere molto, giusto qualche minuto e un furgone delle guide ci
carica. A passo d'uomo e balzellon balzelloni arriviamo a Kennecot.
Le nostre guide saranno un
ragazzo californiano ed una ragazzina dell'Oregon.
Dopo averci fatto firmare un
po' di carte, e assegnato i ramponi, ci mettiamo in marcia passando attraverso
le spoglie della città fantasma.
Fantastica.
Qui fino al 1938 si
raccoglieva il rame. Alcuni edifici sono stati restaurati e sono visitabili, ma
la struttura principale che si arrampica sulla montagna sembra che possa cadere
da un momento all'altro. Sarebbe il set ideale per un film, di qualsiasi
genere.
Oltre a noi nel gruppo c'è una
coppia americana, un danese e una signora olandese. Quest’ultima è una
chiacchierona che attaccherebbe bottone persino con le alci. Ovviamente
annovera anche me tra le sue vittime e così scopro che vive ad Utrecht ed è
stata in Italia diverse volte. Simpatica, ma chiacchierona.
Tra una sosta e l’altra
arriviamo all’inizio del ghiacciaio. In realtà la base è a qualche chilometro
verso valle, ma essendo ricoperto di terra, non si riconosceva. Solo
osservandolo attentamente si intravede qua e là qualche sfumatura più chiara,
qualche volta con risvolti di bianco sporco.
Guardandolo meglio si può
notare che il ghiaccio è dipinto da tre diversi colori: una parte è marrone,
una parte beige e poi c’è una lunga lingua nera. Questa proviene dalla montagna
del ghiacciaio McCarty che è molto lontano da qui e quasi non si vede. Ci ha messo
centinaia, forse migliaia di anni a ridursi in queste condizioni, ma ancora
resiste e trasporta il colore della tavolozza da cui ha attinto.
Tanto per darcene un’idea ci
dicono che solo 100 anni fa il ghiaccio era più spesso di almeno 100 metri.
Infiliamo i ramponi, gli
occhiali da sole, doppio pile e i guanti. Questi, oltre che per il freddo,
servono in caso di caduta: il ghiacciaio infatti anche se non sembra è molto
tagliente. Proviamo a toccarlo delicatamente e ci accorgiamo subito delle
piccole increspature che formano tutta la superficie grigia. Effettivamente
grigia non è: analizzandola da vicino si vedono bene i piccoli sassi che la
ricoprono, ma sotto il ghiaccio è puro.
Le guide ci mostrano
rapidamente la tecnica di ramponaggio così in pochi minuti siamo liberi di
zampettare qua e là sul ghiaccio. Con questi attrezzi ai piedi possiamo scalare
facilmente pareti con un certo grado di ripidità e discendervi senza inaugurare
una gara internazionale di slittino, o “set a cu” come si dice dalle mie parti.
La gita sul ghiaccio è stata
meglio di quello che mi aspettavo. Ne avevo già fatta una in Islanda, ma era
stata molto breve, anche se più tecnica. Ci avevano spiegato le dinamiche di
vita del ghiacciaio, ma non avevamo avuto molto tempo per ramponare. Qui invece
lo perlustriamo per quasi due ore e ci fermiamo pure a pranzare in riva ad un
laghetto con conseguente ruscello che scorre in una pista da bob verso valle.
Io e Cassandra non abbiamo
fame e prendiamo solo un the fatto con il ghiaccio sciolto sul fornelletto
delle guide, gli altri mangiano proprio il pranzo.
Alla ripresa del cammino
saliamo ancora un pochino, ma non arriveremo molto lontano, nel gruppo c’è
gente che fatica a camminare coi ramponi ed è molto lenta.
Alessandro prova a chiedere se
ci porteranno lassù, fino alla zona bianco azzurra del ghiacciaio, ma gli
rispondono che è troppo lontano e non abbiamo abbastanza tempo.
Nonostante le due ore di
fresco il tempo è volato e dobbiamo già tornare a valle.
Un’oretta più tardi siamo a
Kennecot, visitando gli ambienti restaurati della città mineraria: una casa,
l’ufficio postale, la sala del telegrafo, il padiglione con le immense turbine
e il grande magazzino.
Tutto molto bello e caratteristico. Avremmo voluto
visitare anche il grande edificio che sembra diroccato, ma forse visto da fuori
ha un fascino ancora maggiore dato dalla sua decadenza.
Dopo un rapido pasto ci
facciamo riportare in riva al fiume sul furgone e stavolta non posso
fare a meno di notare delle vecchie rotaie che di tanto in tanto compaiono ai
bordi della strada.
Sono quelle della vecchia ferrovia, un tempo unica via
di accesso a Kennecot, che sono state smontate, ed in parte abbandonate per far
posto alla nuova strada.
Altre vecchie strutture
emergono qua e là, ma non si capisce quali siano originali e quali no.
Giunti al ponte riprendiamo la
macchina e ripartiamo per Copper Center, dove prima di cena andiamo a trovare
il proprietario al suo bar dei trenini.
Il signor Ronald Simpson ci
spilla delle bud, niente di che. In realtà aveva una ventina di birre da farci
provare ma noi eravamo distratti dall’atmosfera da Boar’s Nest, e dai trenini e
non abbiamo approfondito l’esperienza alcolica. Purtroppo Ron ci ha rivelato
che deve ancora sistemare le rotaie dopo l’inverno appena finito e quindi non
può ancora rimetterlo in moto.
Facciamo due chiacchiere
veloci con due avventori e un gruppo di ragazzi che è venuto a pubblicizzare il
loro concerto di venerdì. Anche questi non si fanno troppo impressionare dal
fatto che veniamo dall’Italia e perdono e subito interesse, chissà quanti
turisti passano di qui ogni anno, chissà quanti manichini. Evidentemente
l’italiano medio fa già parte della loro collezione.
Inconsapevoli del pericolo
scampato, scrutiamo ogni angolo alla ricerca di trenini nascosti e quando li
abbiamo trovati e catalogati tutti, salutiamo. È ora di cena e dobbiamo ancora
cucinare.
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