martedì 23 luglio 2019

Giorno 6 - Wrangell St Elias



Sveglia alle 4 oggi. Del resto se ieri ho detto che stiamo vivendo una versione fresca di un safari, i tempi sono questi. Comunque lo sapevamo per cui non è un gran problema, anzi. Per quanto mi riguarda sono bello sveglio e contento di partire. La prima notte in questa casa assurda è stata molto riposante. Forse la prima vera dormita dall’inizio del viaggio.
Insomma, oggi partiamo presto perché la destinazione è il Wrangell - St. Elias, che con i suoi 5,3 milioni di ettari, è il parco nazionale più grande d'America. Composto da quattro catene montuose, un ghiacciaio grande quasi quanto la Val d'Aosta e migliaia di chilometri di coste selvagge, ovviamente non vedremo tutto il parco in un solo giorno. La nostra meta è Kennecot, la città mineraria abbandonata nel 1938, da dove partiremo per la ramponata sul ghiacciaio Sant Elias.
La strada è lunga, circa tre ore, e l’appuntamento è fissato per le 8,30. Ecco svelato il motivo per cui ci siamo dovuti alzare presto. Essendo giugno solo l’inizio del periodo estivo, e quindi con scarso afflusso di turisti, le ramponate partono solo alle 9 del mattino, mentre a luglio ed agosto ne parte una anche subito dopo pranzo.
In ogni caso se avessimo partecipato a quella del pomeriggio poi saremmo rientrati a casa tardissimo, per cui forse è meglio così.
A poco meno di un’ora dalla partenza arriviamo in una zona verdissima di montagne e laghetti che corrono lungo la strada riflettendo il verde come fossero miniere di smeraldi a cielo aperto.
È qui che incontriamo per la prima volta le aquile calve, simbolo degli Stati Uniti. Il fiero animale ci sorvola per qualche secondo e poi si posa sulla cima di un altissimo pino. Guardandoci dall’alto della sua superbia usa la distanza come uno scudo.
Sarà anche in alto, ma non mi può sfuggire, o per lo meno non può sfuggire allo zoom della mia piccola macchinetta fotografica. Mentre la inquadro si vede bene che ha capito. Ha capito che noi abbiamo capito. Fa la vaga, ma in fondo si sente un po’ diva e si lascia fotografare.
Dopo l’ultimo scatto le lascio il mio biglietto da visita con un “le faremo sapere”, quindi proseguiamo, la strada è lunga.
Giunti in riva all’alveo di un grandissimo fiume, ci sono decine di pescatori all’opera, ma anche tante aquile che attendono qualche resto comodo.
Attraversato il ponte inizia il tanto temuto sterrato.
L'unica strada che arriva a Kennecot da Copper Center è una delle più famose dell'Alaska: la McCarty road. Un tracciato tutto sterrato per il quale nessuna compagnia di noleggio risponde per eventuali danni provocati alla vettura. Per questo motivo non ci potremmo andare.
Come la maggior parte dei turisti facciamo finta di nulla e la imbocchiamo tranquillamente.
Sarà una strada sterrata dalla pessima fama, ma confronto a certe strade tra Torre Spaccata e la Romanina... sembra il panno verde di un biliardo.
L'unico problema sono i conigli. Ogni due o trecento metri troviamo gruppetti di conigli che brucano l'erba a bordo strada. La maggior parte di essi ha le spalle rivolte alle eventuali vetture. Il Pier, con il suo passato da camionista, va piano per evitare che qualche creatura gli salti in mezzo alla carreggiata.
Difatti non sono pochi quelli che tentano il suicidio, ma per fortuna questi jack rabbit sono sì stupidi, ma veloci.
Con tutti questi animaletti che vivacchiano sulla strada ci viene spontaneo pensare a quante altre specie ci siano nascosti dagli alberi, probabilmente orsi, volpi e... Lupulalà! Eccululà!
Non sono sicuro che fosse proprio un lupo perché era di spalle e lo abbiamo visto per un paio di secondi appena, però era un canide grigio con la coda più scura. Se non era un lupo era una volpe, comunque un predatore in cerca di conigli da colazione.
Proseguiamo cercando di tenere gli occhi aperti, ma il sonno ogni tanto ci tradisce. Si viaggia così finché non arriviamo ad un antico ponte di legno che sembra uscito da un film degli anni ‘40. Ad un'altezza considerevole, circa venti o trenta metri, non saprei valutare dalla distanza a cui siamo, le vecchissime travi di legno annerito che sostenevano la ferrovia, seguono la strada fino ad una gola attraversandola e girando verso destra. Probabilmente è rimasto così proprio dagli anni ‘40, periodo dell'abbandono della città mineraria. È ancora fantastico e molto suggestivo.
Quando arriviamo finalmente a destinazione parcheggiamo e aspettiamo che ci vengano a prendere le guide.
L'appuntamento è dall'altra parte del fiume, raggiungibile solo tramite un ponte ciclopedonale. 
Una volta attraversato non dobbiamo attendere molto, giusto qualche minuto e un furgone delle guide ci carica. A passo d'uomo e balzellon balzelloni arriviamo a Kennecot.
Le nostre guide saranno un ragazzo californiano ed una ragazzina dell'Oregon.
Dopo averci fatto firmare un po' di carte, e assegnato i ramponi, ci mettiamo in marcia passando attraverso le spoglie della città fantasma.
Fantastica.
Qui fino al 1938 si raccoglieva il rame. Alcuni edifici sono stati restaurati e sono visitabili, ma la struttura principale che si arrampica sulla montagna sembra che possa cadere da un momento all'altro. Sarebbe il set ideale per un film, di qualsiasi genere.
Oltre a noi nel gruppo c'è una coppia americana, un danese e una signora olandese. Quest’ultima è una chiacchierona che attaccherebbe bottone persino con le alci. Ovviamente annovera anche me tra le sue vittime e così scopro che vive ad Utrecht ed è stata in Italia diverse volte. Simpatica, ma chiacchierona.
Tra una sosta e l’altra arriviamo all’inizio del ghiacciaio. In realtà la base è a qualche chilometro verso valle, ma essendo ricoperto di terra, non si riconosceva. Solo osservandolo attentamente si intravede qua e là qualche sfumatura più chiara, qualche volta con risvolti di bianco sporco.
Guardandolo meglio si può notare che il ghiaccio è dipinto da tre diversi colori: una parte è marrone, una parte beige e poi c’è una lunga lingua nera. Questa proviene dalla montagna del ghiacciaio McCarty che è molto lontano da qui e quasi non si vede. Ci ha messo centinaia, forse migliaia di anni a ridursi in queste condizioni, ma ancora resiste e trasporta il colore della tavolozza da cui ha attinto.
Tanto per darcene un’idea ci dicono che solo 100 anni fa il ghiaccio era più spesso di almeno 100 metri.
Infiliamo i ramponi, gli occhiali da sole, doppio pile e i guanti. Questi, oltre che per il freddo, servono in caso di caduta: il ghiacciaio infatti anche se non sembra è molto tagliente. Proviamo a toccarlo delicatamente e ci accorgiamo subito delle piccole increspature che formano tutta la superficie grigia. Effettivamente grigia non è: analizzandola da vicino si vedono bene i piccoli sassi che la ricoprono, ma sotto il ghiaccio è puro.
Le guide ci mostrano rapidamente la tecnica di ramponaggio così in pochi minuti siamo liberi di zampettare qua e là sul ghiaccio. Con questi attrezzi ai piedi possiamo scalare facilmente pareti con un certo grado di ripidità e discendervi senza inaugurare una gara internazionale di slittino, o “set a cu” come si dice dalle mie parti.
La gita sul ghiaccio è stata meglio di quello che mi aspettavo. Ne avevo già fatta una in Islanda, ma era stata molto breve, anche se più tecnica. Ci avevano spiegato le dinamiche di vita del ghiacciaio, ma non avevamo avuto molto tempo per ramponare. Qui invece lo perlustriamo per quasi due ore e ci fermiamo pure a pranzare in riva ad un laghetto con conseguente ruscello che scorre in una pista da bob verso valle.
Io e Cassandra non abbiamo fame e prendiamo solo un the fatto con il ghiaccio sciolto sul fornelletto delle guide, gli altri mangiano proprio il pranzo.
Alla ripresa del cammino saliamo ancora un pochino, ma non arriveremo molto lontano, nel gruppo c’è gente che fatica a camminare coi ramponi ed è molto lenta. 
Alessandro prova a chiedere se ci porteranno lassù, fino alla zona bianco azzurra del ghiacciaio, ma gli rispondono che è troppo lontano e non abbiamo abbastanza tempo. 
Nonostante le due ore di fresco il tempo è volato e dobbiamo già tornare a valle.
Un’oretta più tardi siamo a Kennecot, visitando gli ambienti restaurati della città mineraria: una casa, l’ufficio postale, la sala del telegrafo, il padiglione con le immense turbine e il grande magazzino.
Tutto molto bello e caratteristico. Avremmo voluto visitare anche il grande edificio che sembra diroccato, ma forse visto da fuori ha un fascino ancora maggiore dato dalla sua decadenza.
Dopo un rapido pasto ci facciamo riportare in riva al fiume sul furgone e stavolta non posso fare a meno di notare delle vecchie rotaie che di tanto in tanto compaiono ai bordi della strada.
Sono quelle della vecchia ferrovia, un tempo unica via di accesso a Kennecot, che sono state smontate, ed in parte abbandonate per far posto alla nuova strada.
Altre vecchie strutture emergono qua e là, ma non si capisce quali siano originali e quali no.
Giunti al ponte riprendiamo la macchina e ripartiamo per Copper Center, dove prima di cena andiamo a trovare il proprietario al suo bar dei trenini.
Il signor Ronald Simpson ci spilla delle bud, niente di che. In realtà aveva una ventina di birre da farci provare ma noi eravamo distratti dall’atmosfera da Boar’s Nest, e dai trenini e non abbiamo approfondito l’esperienza alcolica. Purtroppo Ron ci ha rivelato che deve ancora sistemare le rotaie dopo l’inverno appena finito e quindi non può ancora rimetterlo in moto.
Facciamo due chiacchiere veloci con due avventori e un gruppo di ragazzi che è venuto a pubblicizzare il loro concerto di venerdì. Anche questi non si fanno troppo impressionare dal fatto che veniamo dall’Italia e perdono e subito interesse, chissà quanti turisti passano di qui ogni anno, chissà quanti manichini. Evidentemente l’italiano medio fa già parte della loro collezione.
Inconsapevoli del pericolo scampato, scrutiamo ogni angolo alla ricerca di trenini nascosti e quando li abbiamo trovati e catalogati tutti, salutiamo. È ora di cena e dobbiamo ancora cucinare.

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