giovedì 31 dicembre 2015

Trastevere


Per completare questa magnifica giornata, ci basta attraversare il Tevere, passando per l'isola tiberina, ritrovandoci così a Trastevere, un quartiere scampato alle trasformazioni che hanno subito nel tempo la maggior parte delle zone di Roma.
Prima di Roma, su queste sponde del fiume c'erano gli etruschi. Vi si erano instaurati qui perché era un punto strategico:
L'isola tiberina era un perfetto guado naturale. Fu grazie al fiume che fiorirono i commerci. Qui arrivava la via salara, poi ribattezzata salaria. Va da sé che con questi commerci arrivò la ricchezza e i vicini villaggi della zona, intuendone il potenziale si unirono, cacciarono gli etruschi e crearono Roma.
Romolo e Remo, probabilmente facevano parte di uno di questi villaggi.
Trastevere fu il primo porto della città, proprio sull'isola.
Col tempo la città crebbe, il porto rimase, ma fu lasciata fuori dalle mura della città.
Era una zona molto frequentata, soprattutto da stranieri che venivano a commerciare con la città, che crebbe a tal punto da contare sotto Traiano circa un milione di abitanti. Purtroppo nel medio evo si spopolò al punto da scendere fino a soli 50000 abitanti.
Anche Trastevere si svuotò.
La nostra visita inizia a Piazza in piscinula, chiamata così perché pare che Augusto ci costruì delle vasche, probabilmente proprio delle piscine. Oggi c'è solo un parcheggio, attorniato però da palazzi medievali da cui spuntano qua e là come addobbi, parti della Roma imperiale. Ci sono colonne, fregi e altro, tutto materiale di spoglio che emergeva in questa zona.
La maggior parte del marmo dell'antica Roma però venne riutilizzato sia come calce che come base per nuovi palazzi. Fu così che la grande Roma imperiale scomparve, dopo l'abbandono della città, gli argini del fiume vennero rialzati notevolmente, forse a causa delle piene, e molti edifici interrati. Ciò che rimaneva in superficie veniva riutilizzato o demolito.
Il ripopolamento del quartiere di Trastevere avvenne solo tra l'800 e il 1000, e questo solo grazie alle sue chiese che sono tra le più antiche di Roma.


Le case rimasero comunque basse, nessun grande palazzo venne costruito qui. Trastevere era diventato un luogo di passaggio per andare a san Pietro. Solo alcune famiglie vi costruirono casa e una di queste furono i Mattei, che avevano la concessione della manutenzione dei ponti di tutta Roma.
La casa dei Mattei, qui in piazza piscinula, divenne col passare dei secoli una famosa locanda:
La locanda della sciaquetta.
Sciaquetta a Roma è una di facili costumi...
Ci addentriamo nel quartiere e l'aria che respiriamo è decisamente diversa dal caos delle grandi strade a cui mi siamo abituati. C'è molta gente che passeggia e mi sembra di essere a Milano, mi ricorda un pochino i navigli e Brera. Rispetto a Roma è proprio diverso.
Ci addentriamo ancora di più fino a passare sotto l'Arco dei Tolomei, dove si vede ancora la forma di una torre, poi tagliata, che serviva sia come abitazione che come guardia. Nel medio evo, quando Roma era caduta e non c'erano i Papi a difenderla con il loro esercito, c'erano più di trecento torri di guardia. Solo al ritorno del papa le torri non servirono più e vennero tagliate per essere trasformate in palazzi.
Percorriamo “Via dei salumi”, esempio di strada in cui erano situati esercizi commerciali di un certo genere, fino ad infilarci nel Vicolo delle palme, dove c'è la più antica sinagoga di Roma. Oggi l'edificio non ha più quella funzione, fra le sue mura c'è un famoso ristorante, ma dai caratteri ebraici scolpiti su una delle sue colonne esterne, si evince ancora chiaramente che il piccolo edificio doveva essere adibito a luogo di culto.
La guida ci racconta che in precedenza questa stradina era chiamata vicolo dell'atleta. Qui infatti vi era una magnifica statua di atleta intento a depilarsi con lo strigile. La statua pare provenisse dalle Terme di Agrippa, che stavano accanto al Pantheon. Essendo così bella e realistica, l'imperatore Tiberio se ne innamorò e decise di portarsela a casa. Filtrate le sue intenzioni bastò il semplice accenno di una rivolta popolare ad impedirglielo.
Come, secoli più tardi, sia finita in questo vicolo a Trastevere, nessuno lo sa. Ora la statua, non essendo scampata alla voracità dei Papi, è ai musei vaticani.


Usciamo dal vicolo per ritrovarci poco più in là su Piazza di santa Cecilia. Su un vecchio palazzo medievale vediamo raffigurata la testa di un leone. La guida ci racconta che il simbolo di trastevere è proprio un leone. La storia infatti dice che un tempo sul campidoglio vivesse un leone incatenato. Un giorno un ragazzo di trastevere vi si avvicinò troppo e venne sbranato. Il Papa fece sopprimere l'animale seppellendone la pelle a Trastevere, assieme alla sua vittima.
Entrando in santa Cecilia possiamo ammirare uno dei mosaici più antichi della città.
Proseguiamo su via dei genovesi, dove sorge la chiesa di san Giovanni dei genovesi. Accanto ad essa c'era un ospedale, in realtà un ostello, per i pellegrini genovesi che arrivano in visita a Roma.
Continuando a camminare andiamo quasi a sbattere contro una casupola su cui vi è un iscrizione.

Qui sorgeva una delle stazioni dei vigili del fuoco della città. La principale era in campo marzio, mentre questa era la settima stazione risalente del secondo secolo d c.
La guida ci racconto che all'interno ci sono ancora delle scritte dei vigili del fuoco ed una recita una richiesta ancora molto attuale:
Non ce la faccio, più datemi il cambio”
Arriviamo al luogo dove si trova la cosiddetta “Maria dei noartri”. E' una statua della vergine che venne trovata sulle rive del Tevere e riconosciuta come madonna del carmine.
La sua storia le attribuisce diversi miracoli e per questo motivo il 26 luglio le viene fatto fare il giro del quartiere. Per una settimana torna dalla chiesa di sant'Agata, la chiesa dove fu custodita originariamente.
Il nostro viaggio in questo caratteristico e romanamente atipico quartiere, ma forse è tra i più romaneschi che ci siano, termina in santa Maria in Trastevere. La chiesa, forse del duecento, è la più antica chiesa romana dedicata a Maria.
Vista da fuori è molto bella e adornata, oltre che da un grande mosaico, anche da quattro grandi colonne che provengono dalle terme di Caracalla.
Provati, storditi e comunque contenti, ci addentriamo nei vicoli dove un tempo i bulli di Trastevere spadroneggiavano, e torniamo verso il nostro quartiere, attraversando una Roma completamente differente, sgranocchiando qualche altro pezzo di pizza ebraica.

mercoledì 30 dicembre 2015

La cosa più buona del mondo

Dopo aver concluso la visita all'insulae dell'ara coeli, dovendo poi andare ad un'altra nel pomeriggio, io e Cassandra decidiamo di andare a mangiare al ghetto ebraico.
Il quartiere è piccolo, si gira molto in fretta, c'è poi una grande via che lo attraversa su cui si affacciano molti ristoranti. È da molto tempo che voglio assaggiare i famosi carciofi alla giudìa, così li esploriamo un po' tutti in cerca di un menù adatto ai nostri gusti vegetariani. Volendo ci sarebbero perfino dei fast food kosher.
Troviamo un ristorantino tranquillo e carino dove prendiamo i carciofi alla giudìa, cicoria ripassata e i falafel con l'hummus. Concludiamo con Tonnarelli ai carciofi. Tutto buono, soprattutto i carciofi che mi aspettavo molto più pesanti essendo fritti.
Usciamo ed abbiamo giusto il tempo di infilarci in una porticina da cui a qualunque ora spunta sempre una fila di gente.
Incuriositi ci fermiamo, anche per procurarci la merenda da mangiare più tardi. All'interno ci sono due signore che raccolgono manate di dolci da delle teglie. Prendiamo due pezzi di quelli che sembrano pane con l'uvetta. In realtà non è così.
È la cosa più buona che abbia mai mangiato. Tra l'altro vegana perché fatta solo con farina, zucchero, uvetta, mandorle, e canditi. Dopo averla assaggiata, ancora calda, non capisco più niente e smetto solo dopo aver attraversato l'isola tiberina quando, ancora con la bocca piena, devo pagare la guida per la visita successiva.
Ci devo tornare, per forza.

martedì 29 dicembre 2015

L'insulae dell'Ara Coeli


Dopo le case del Celio, e soprattutto Ostia antica, pensavo ormai di saperne abbastanza sulle insulae, invece... Visitando i resti dell'Insulae che sta proprio sotto l'Ara Coeli, abbiamo scoperto molte altre cose interessanti.
Insulae significa isola. Il loro nome in principio descriveva dei grandi edifici isolati, un pò esterni rispetto al centro città. Poi però la sovrappopolazione ha cambiato tutto e le insulae non furono più isolate, ma molto ravvicinate l'una con l'altra e soprattutto affollate, sia all'interno che all'esterno. Se prima erano edifici isolati, l'esplosione demografica di Roma consumò ogni minimo spazio tra un edificio e l'altro.
Altra informazione sulle insulae è che erano case in affitto, diversamente dalle domus che erano di proprietà.
Tipiche costruzioni a partire dal primo secolo dopo cristo, arrivarono ad essercene in tutta Roma quasi quarantasettemila. Erano edifici che potevano avere fino a sei piani, forse più. Questo finché il problema dei crolli decretò il loro limite in altezza, prima a 21 metri e poi, non bastando, a 16 metri.
Costruite in laterizio, ai piani bassi vi erano gli spazi più grandi dove stavano le botteghe, i negozi. Tra l'altro negozio deriva da "negare l'ozio".
Sotto i portici, davanti ai negozi, venivano messi i banchi dei commercianti. Secondo la guida i banchieri nascono così: dalle persone che mettevano i loro banchi per commerciare.
Salendo al primo piano c'erano i magazzini dove vivevano i proprietari dei negozi, a volte perfino i proprietari delle Insulae.
Al secondo piano vi erano poi le abitazioni comuni, che più si saliva e più diventavano piccole.
Le case già al secondo piano erano ridotte a delle stanzette, probabilmente pure soppalcate, con una piccola finestra per la luce e l'aria. All'interno non c'erano bagni, ma solo lo spazio per un giaciglio su cui dormire, ed un braciere portatile per cucinare.
Nonostante gli spazi angusti l'affitto era carissimo, soprattutto come in questa Insulae che stava in centro.
Più si saliva e più si arrivava a vivere in dei cubicola, a volte sotto il tetto, molto pericoloso perché quasi esposti alle intemperie e soprattutto per gli incendi frequentissimi.
Insomma gli spazi erano ridottissimi, ma questo era possibile soprattutto perché i romani vivevano praticamente tutto il giorno in strada. Si tornava a casa solo alla sera per cenare e dormire.


Tra l'altro i rifiuti e i bisogni venivano gettati in strada, così sul basolato si poteva calpestare di tutto...
Col tempo le Insulae potevano essere trasformate in domus, in cui ci viveva una sola famiglia ricca, ma capitava di rado e ce ne erano poche, circa una domus ogni sette Insulae.
Se calcoliamo che in questi palazzi ci potevano vivere anche cinquecento persone, si capisce quanto era sproporzionato il rapporto.
Questa è una delle pochissime rimaste nella Roma di oggi. È del secondo secolo dopo cristo e sorge davanti al campidoglio, dove c'era il tempio di Giunone moneta. Moneta in questo caso non per il conio, in realtà significa ammonire, ovvero Giunone ammonisce.
In questo edificio sembra ci vivessero circa 380 persone.
Questa è l'insulae dell'Ara coeli, l'altare del cielo, ma come si faceva a riconoscere un'insulae in mezzo alle altre 47000? Non c'erano i civici, ma si attribuiva l'indirizzo al proprietario, o proprietaria, delle insulae stessa. A volte i palazzi davano il nome perfino alla strada in cui stavano.
Come ho scritto più volte le insulae erano spesso trappole mortali a causa degli incendi. Fu Augusto a istituire il primo corpo di vigili del fuoco, che avevano caserme sparse nelle varie zone della città. Gli incendi avvenivano per distrazioni, come quello ai tempi di Nerone, che distrusse mezza Roma. Pare sia partito da un Insulae del rione Monti.
Dall'esterno dell'insulae si nota una cosa, che già avevo adocchiato durante la maratona: dai ruderi spunta il pezzo di un campanile.
La guida ci racconta che si tratta della chiesa di San Biagio del mercato, risalente all'anno 1000. Il campanile invece è del 1200.


Questa Chiesa, praticamente appoggiata all'insulae, fu Rifatta nel 1600 e dedicata a Santa Rita da cascia.
Oltre al campanile si vede benissimo un arcosolio con affreschi funebri paleo cristiani. Probabilmente qui era sepolto uno della famiglia Boccadella, committenti della costruzione di questa edificio sacro.
Era una Chiesa barocca, ma tra il 1930 e 1940 Mussolini sventrò il quartiere medievale dell'Ara Coeli per riportare alla luce il foro romano.
La chiesa fu smontata e rimontata vicino al teatro di Marcello. Fu così che venne alla luce l'insulae che abbiamo visitato oggi.

lunedì 28 dicembre 2015

LA NECROPOLI DI SAN PAOLO



Andando al lavoro in metropolitana passo ogni giorno dalla basilica di san paolo, ma ovviamente non mi ci ero mai fermato.
Qui sorge una basilica grandissima che, pur essendo stata ricostruita in seguito al devastante incendio del 1823, dovrebbe aver mantenuto la stessa forma e dimensione. Nella basilica di San Paolo fuori le mura è conservata la tomba dell'apostolo Paolo. Pare fosse siriano e che perseguitasse i cristiani, prima di convertirsi. Va be ma sto divagando.
Prima di visitare la necropoli uno sguardo all'immensa basilica glielo diamo e devo dire che è veramente grande, forse seconda solo a san Pietro e San Giovanni.
All'orario dell'appuntamento con l'archeologa dell'associazione l'asino d'oro, ci troviamo all'entrata secondaria della basilica, come indicato dalla mail, solo che non c'è nessuno. Giriamo attorno alla basilica un paio di volte. Quando passiamo il cartello del terzo chilometro di giro a vuoto Cassandra mi suggerisce di provare con una profezia. Purtroppo ho finito il credito profetico e sono costretto ad affidarmi al telefono. Per fortuna troviamo il gruppo che stava a più di cento metri nel parco. Le indicazioni sul ritrovo stavolta lasciavano un po' a desiderare.
Ed eccola la necropoli di San Paolo fuori le mura. In realtà il sito da vedere è proprio piccolo: un'apertura del terreno ci mostra una manciata di stanze, anche se molto ricche. A quanto pare l'intera necropoli giace ancora tutta sotto il parco ed il quartiere San Paolo, e non è mai stata indagata. Con Cassandra ci basta uno sguardo per capirci: "Chissà cosa giace lì sotto a pochi metri dalla superficie".
L'archeologa intuisce i nostri pensieri e ci dice subito che non dobbiamo aspettarci di trovare chissà quali tesori. I defunti infatti venivano sepolti si con oggetti di loro proprietà, ma non gioielli, che si tenevano i parenti vivi. Nei rari casi in cui accadeva era perché il padrone della tomba doveva essere davvero molto molto ricco.

Nelle poche e piccole stanze che vediamo ci sono solo colombari che potevano contenere due, tre e a volte quattro urne cinerarie.
Erano stanze strette e profonde, dove, nonostante venisse ottimizzato ogni possibile spazio, angolo o parete, c'era sempre posto per la targhetta che indicava il nome del defunto.
Chi poi ne aveva la possibilità si faceva scolpire un ritratto o metteva un iscrizione sulla lapide o su un pilastro. Tutte le iscrizioni iniziavano per "Dis manibus", in modo da dedicare il sepolcro agli dei Mani, che erano proprio coloro che ne dovevano scongiurare le manomissioni. Solo dopo tale scritta venivano aggiunti i tre identificativi: il nome, il Gens, ovvero il clan di appartenenza, ed in fine il cognome.


Da vedere sembra ci sia poco, ma è tutto concentrato. Le informazioni che ci racconta l'archeologa sono interessanti, molto ritroviamo del modo di vivere il rito funebre dei romani in quello che è il nostro di oggi. Tra le varie similitudini troviamo i Libitinari, ovvero gli impresari delle pompe funebri che si occupavano del corpo del defunto.
Si usava già che dopo la cerimonia alcune persone portassero il corpo del defunto in spalla fino al sepolcro, così come la processione. Oggi non si usa più invece mettere una moneta nella bocca del defunto per pagare il traghettatore Caronte.
C'erano poi delle donne pagate per piangere. Più piangevano è più strillavano e meglio era. Queste raccoglievano addirittura le loro lacrime in piccoli contenitori, in modo da dimostrare di aver adempiuto al loro compito ed essere pagate. Al contrario di oggi c'era chi assumeva suonatori e perfino dei gladiatori per dare spettacoli di lotta. Non lo sapevo, ma pare che i gladiatori siano nati proprio in questo modo: come spettacoli funebri.


Una cosa diversa da oggi, e che per fortuna non si usa più, è quella di far indossare una maschera ad una persona, appositamente pagata, in modo da impersonare il defunto. Lo scopo era quello di farlo partecipa al suo stesso funerale.
Mi fa venire in mente la canzone di Jannacci:
Si potrebbe andare tutti al tuo funerale, per vedere l'effetto che fa...”
Dato che si poteva decidere se farsi cremare o inumare, chi sceglieva il fuoco, prima di incenerire il corpo, doveva tagliare un dito al cadavere per poterlo seppellire ed avere una parte del corpo a contatto con la terra. Questo perché la terra era vista come purificatrice.
Alla fine di tutto il rito si mangiava, perché mangiare era l'azione simbolo che separava i vivi dai morti: chi moriva non poteva mangiare. Chi poteva permetterselo dava perfino un grande banchetto.
Altra usanza arrivata fino a noi, oggi visto come rito scaramantico, è quella del lancio del sale dietro le spalle: per evitare che gli spiriti dei parenti potessero tornare a perseguitare i vivi si usava il sale, allora preziosissimo. Ovviamente il lancio era simbolico.
In ogni caso pare che già allora le persone fossero molto superstiziose...

venerdì 13 novembre 2015

Le case del Celio



Già duemila anni fa, Roma era soffocata dai palazzi, dai templi, ma soprattutto dalle insulae, dei grandi complessi di case popolari alte fino a cinque o sei piani.
Al giorno d'oggi, specialmente in centro, è difficile pensare che ci siano ancora delle Insulae visibili, invece non è così, solo che nessuno sa dove cercarle.
Un esempio molto evidente, ma che passa inosservato, sono quelle dell'Ara Coeli, alla destra dell'altare della patria. Un altro invece sono le case sotto il colle Celio, di fronte al Palatino.

Salendo il clivo di scauro, una strada antichissima che doveva collegare il circo massimo con il Colosseo, si arriva alla basilica dei santissimi Giovanni e Paolo. Questi non erano gli apostoli, ma due ufficiali dell'esercito di Costantino, martirizzati proprio in questo luogo per ordine dell'imperatore Giuliano l'apostata.
Sotto la basilica infatti, intorno al secondo secolo dopo cristo c'era un insulae con le sue botteghe. Accanto ad essa sorgeva una piccola domus. Successivamente tutto il complesso fu acquistato da un unico proprietario che lo unificò in una sola struttura, facendoci pervenire fino ai giorni nostri delle stanze affrescate in maniera spettacolare.

Ciò fu possibile proprio perché sopra di essa venne costruita la basilica, interrando così la insulae e la domus. Ma perché la costruirono?
Per via di Giovanni e Paolo: i due ufficiali dell'esercito di Costantino, che vivevano proprio in questa domus quando Giuliano divenne imperatore. Esso cercò di eliminare alla radice il problema dei cristiani e, dato che si conosceva l'orientamento religioso dei due ufficiali, questi vennero prima arrestati, poi incarcerati e quindi uccisi. 
 

Essendo stati assassinati in questa casa, i cristiani iniziarono a venire qui in pellegrinaggio per pregare sulle tombe dei martiri. Col passare del tempo fu eretta una basilica a loro dedicata.
Uscendo dal museo abbiamo giusto il tempo di ammirare uno dei pochi campanili medievali sopravvissuti di Roma, con i suoi piatti colorati incastonati tra i mattoni. Sotto di esso si possono vedere chiaramente le enormi pietre di travertino che un tempo componevano la base del tempio di Claudio. Chissà che un giorno non lo si possa visitare, per il momento non ci rimane che aspettare, e sognare ad occhi aperti.
Che male c'è a sognare?
Da quando ho iniziato a visitare Roma in compagnia di Cassandra io lo faccio tutti i giorni, ad occhi aperti, vivendo in due dimensioni parallele.
Ammirando dall'alto il Clivo di Scauro, ci addentriamo in un parco, altro angolo segreto, fiscalmente custodito da questa città, questa diva, tanto orgogliosa del suo passato, quanto gelosa dei suoi tesori ancora da scoprire. Tesori che neanche a dirlo, per il momento possiamo solo sognare.

giovedì 12 novembre 2015

Le tombe di via Latina



Vicino all'Arco di travertino, c'è un luogo poco conosciuto, forse anche dai romani stessi, che, pur non essendo grande e maestoso come gli altri gioielli della capitale, conserva delle tombe sorprendenti per quanto sono belle. Nemmeno Cassandra le conosceva, e lei ci abita da sempre a Roma.
La via Latina, come l'Appia antica, era una via consolare che aveva origine nello stesso punto da cui partiva l'Appia. Questa però portava da Roma a Capua.
Nonostante sia rimasto pochissimo di questa strada antica, ci sono ancora delle tombe sparse qua e la nel parco. Due di queste sono visitabili tramite l'ausilio di associazioni culturali.
L'ingresso alla via Latina è gratuito, mentre alle tombe si pagano gli archeologi per la visita guidata e il biglietto per le tombe. Noi ci aggreghiamo al gruppo e iniziamo l'esplorazione.
Saliamo lentamente sulla via e ci fermiamo all'ombra del sepolcro dei Corneli o Barberini. L'archeologa ci racconta che qui non sono conservati dei discendenti della potente famiglia romana, ma si chiama così solo perché tutta quest'area fu acquistata dai Barberini e adibita a terreno agricolo.


Mentre la guida spiega, sento ripetere tra i presenti: quello che non hanno fatto i barbari...
Il sepolcro, alto ben due piani, ha anche un ulteriore livello sotterraneo dove erano custoditi i sarcofagi.
Non è ancora visitabile perché lo stanno mettendo in sicurezza e sono in attesa di altri fondi, ma forse un giorno non lontano potrebbe essere aperto al pubblico, così come il sepolcro fortunati, dal nome dello scopritore di queste tombe. Di questo sepolcro rimane solo il livello sotterraneo ma sembra che una volta messo insicurezza potrà mostrare qualcosa di unico.
Appena prima di proseguire la passeggiata sul basolo, una pigna enorme sfiora di pochissimi centimetri la testa dell'archeologa. Una lisciata che altrimenti avrebbe concluso la giornata in maniera ben differente, soprattutto per la guida.
Cassandra mi guarda e io penso "lo aveva previsto". Ovviamente, da buona profetessa quale è, non ha detto nulla, perché sapeva che altrimenti avrebbe cambiato il tempo, lo spazio e pure l'energia della via latina, provocando un salto temporale che ci avrebbe catapultato a tutti nell'anno 72 dc.
Sto per ringraziarla ma lei è molto modesta. Cerca assumere l'aria di non ha fatto niente di tutto questo e così mi dice:
"Ma da dove arrivano tutti questi pini marittimi? Ai tempi dei romani non c'erano mica."
Non so cosa risponderle, al momento sono concentrato su due mila anni fa.

L'inconsapevole gruppo, graziato dall'ordine delle trite cariatidi, giunge così alla tomba dei Valeri. È una ricostruzione dell'ottocento, ma rende perfettamente l'idea di come doveva essere il sepolcro: un recinto circondava la tomba, alta due piani. Al livello del terreno c'era una sala che veniva utilizzata per i banchetti nei giorni in cui la famiglia si riuniva per stare vicina ai defunti. Scendendo le scale invece si entrava nella tomba vera e propria, la camera dove venivano depositati i sarcofagi o le giare, a seconda se il morto aveva deciso di farsi cremare oppure no.
Nella tomba dei Valeri si possono vedere pochissimi resti dei sontuosi marmi che ricoprivano la stanza, ma sul soffitto ci sono ancora degli stucchi in pasta di marmo molto ben conservati. Sulla volta sono rappresentate moltissime figure e, a eccezione di tutte le sculture romane che erano coloratissime, qui invece era stato lasciato volutamente tutto in bianco.
Dalla parte opposta della camera funeraria principale c'è anche un'altra stanza, le cui decorazioni sono completamente scomparse.
Risaliamo le scale e il gruppo viene diviso in due parti perché nella prossima tomba non c'è posto per tutti.
Al contrario di quella dei Valeri, della tomba dei pancrazi non sono rimaste le strutture superiori se non una parte del mosaico. In ogni caso non doveva essere molto differente. Le camere sepolcrali invece sono una vera e propria opera d'arte.
Nella prima stanza, a terra c'era un mosaico e poi, addossate alle pareti, diverse nicchie in cui venivano riposte le giare con le ceneri dei defunti. Sopra le nicchie invece c'era ancora un sarcofago strigilato con un iscrizione e i volti di due persone. Volti però rimasti incompiuti, probabilmente perché i defunti dovevano essere morti prima che l'artista avesse il tempo di imprimere i loro lineamenti nel marmo.

Il soffitto, ben affrescato, aveva un'apertura per comunicare con il piano superiore. Questo perché quando i parenti venivano a banchettare, lasciavano delle offerte calandole nella tomba. Offerte che poi col tempo finivano nel tombino in mezzo alla sala.
Passiamo nell'altra sala e lo spettacolo è ancora maggiore: un enormemente sarcofago occupa quasi tutto lo spazio. È stato fatto così proprio per impedirne il furto: in pratica prima hanno fatto la stanza e riposto il sarcofago, poi l'hanno chiusa dall'alto costruendoci sopra la tomba.


Il soffitto è arricchito così tanto da affreschi e stucchi che sembra quasi la tomba di un imperatore. La più bella che abbia mai visto. Non si riesce a staccare gli occhi dal soffitto e quasi non mi accorgo nemmeno dei mosaici che stanno sul pavimento.
Risaliamo perché il tempo è poco e i custodi ci intimano di uscire, liberi di girare per la via Latina. Immaginando che sotto ogni tumolo non ancora scavato, ci possano essere molte altre tombe simili, forse perfino più belle di questa.
Stento a crederlo ma potrebbe anche essere così. Roma ha ancora così tante storie da rivelare, che io non vedo l'ora di raccontarle.

mercoledì 11 novembre 2015

Lo Stadio di Domiziano




Come tutti sanno nell'antica Roma c'era l'anfiteatro Flavio, meglio conosciuto al giorno d'oggi come Colosseo. Usato per le esecuzioni, per gli scontri con animali feroci e soprattutto le battaglie dei gladiatori. Poi c'era il circo massimo, dove correvano le Formula uno dell'epoca: le bighe e le quadriglie. Divertimenti per il popolo che era letteralmente assetato di spettacolo, e anche un po' di sangue.
L'imperatore Domiziano, della famiglia dei Flavi, però cercò di dare qualcosa di diverso alla gente: le olimpiadi.
Fece infatti costruire uno stadio sopra l'allora campo marzio, uno spazio usato dall'esercito per le esercitazioni.


Anche se non è più visibile come il Colosseo o il circo massimo, lo stadio in un certo senso esiste ancora oggi, ma è rimasto ben poco del suo aspetto originale. Solo qualche muro e un paio di accenni di scale che portavano ai piani superiori. Ciò che possiamo vedere oggi è piazza Navona. Se la si osserva dall'alto infatti si riconosce facilmente la forma dello stadio, sui cui spalti sono state costruite le case che circondano la piazza. Al centro è rimasto il campo dove gli atleti si sfidavano. Era della lunghezza di uno stadio, ovvero l'unità di misura greca da cui la struttura prende il nome, circa 180 metri.
Il complesso era molto grande, largo poco più di cento metri, alto trenta, era lungo quasi 280 metri.
Qui venivano disputati ogni quattro o cinque anni le gare classiche delle olimpiadi greche, allo stile greco, ovvero nudi.
Non erano dei giochi molto popolari tra i romani che preferivano le lotte, di fatto la disciplina più popolare era proprio la lotta.
Domiziano fu tra i primi a capire che per avere il popolo dalla propria parte gli si doveva dare il divertimento, difatti fu lui che, oltre allo stadio, terminò di costruire il Colosseo ricostruì il circo massimo, andato in parte distrutto da un incendio.
Domiziano, nonostante cercasse di ingraziarsi il popolo, non si fidava di nessuno e gli bastava un semplice sospetto per mandare a morte chiunque. Istituì perfino una rete di spie in tutta Roma, così fitta che nessun cittadino poteva dormire sonni tranquilli per la paura di essere denunciato.
Dopo la sua morte, avvenuta per causa violenta, gli imperatori divennero, non più ereditari per diritto di nascita, ma chi stava al potere si sceglieva il proprio successore. Fu così che ebbe inizio il periodo di massimo splendore dell'impero.

martedì 10 novembre 2015

Ostia antica




Da quando ho iniziato a scrivere Cassandra Romae, mi è capitato di sentire che mi sono appesantito. Non sto parlando di peso fisico eh, ma degli argomenti che ho iniziato a trattare sul blog.

Se qualcuno ha davvero pensato che fino ad ora sono stato “pesante”, allora non ha ancora visto niente. Quello di cui parlerò oggi è stato davvero pesante, non per l'argomento ma per l'intensità della giornata vissuta viaggiando indietro nel tempo di due millenni.

Se c'è un sito archeologico semi sconosciuto e sottovalutato, tra quelli che ho avuto la fortuna e il piacere di visitare, fin'ora il primo posto spetta senza alcun dubbio ad Ostia antica.

Una città rimasta sepolta per secoli, al momento più piccola di Pompei come scavi, è però più ampia rispetto a quello che si può visitare.

E' la prima domenica del mese, il che significa che i musei nazionali sono gratuiti. Il biglietto non costerebbe neanche tanto, per quello che c'è da vedere, 10€, sarebbero un furto.

Io e Cassandra avremmo anche potuto aggregarci a qualche guida, già non pagavamo il biglietto, ma abbiamo preferito il fai da te per essere più liberi. Scelta coraggiosa per due assetati di archeologia come noi.

La città è talmente vasta che sulla cartina sono segnati ben 68 punti da visitare. Iniziando la visita in tarda mattinata pronostico che il giro sarà intenso, ma non troppo lungo. Che sbaglio.

Iniziamo dalla necropoli, che era al di fuori delle mura: per legge i romani dovevano seppellire i loro morti al di fuori della città, vedi catacombe e via Appia a Roma.

Il nome della città ha il significato di foce, difatti è nata sulla foce del Tevere. Nata come accampamento militare, diventa importante nei secoli per le sue saline. Così come i muri delle case di questa incredibile città, anche il nome dello stipendio di allora è rimasto lo stesso: il salario. Solo che allora non veniva pagato con del vile denaro, ma con sacchettini di preziosissimo sale di Ostia.





Dopo aver seguito la via ostiense, che porta ancora oggi fino a Roma, attraversiamo quello che resta della prima delle tre porte della città: porta romana. Qui c'è una grande piazza, detta della vittoria per statua della minerva alata, su cui si affaccia il colossale magazzino, attraverso cui passavano tutte le merci che dal mare andavano a Roma.

Affascinati e attirati come falene dal dedalo di muretti, entriamo nel primo piccolo labirinto di stanze, alla ricerca di qualcosa da scoprire e da assaporare. Basta poco per individuare il magnifico mosaico delle terme dei cisiarii.





Riprendiamo il basolato originale della strada, mai toccato negli ultimi duemila anni, che all'interno delle mura prende il nome della via principale di tutte le città romane, il decumano massimo. lo percorriamo per un centinaio di metri costeggiando i resti del magazzino e dei primi portici della città, dove c'erano esercizi commerciali di ogni genere.

Fa caldo, le previsioni davano tempo nuvolo e incerto, invece il sole è uscito facendosi vedere e sentire, pure troppo. Io e Cassandra, dando retta all'applicazione delle predizioni dei profeti del clima, ci eravamo preparati coprendoci ben bene a cipolla. Prima di iniziare a puzzare come l'ortaggio ci siamo spogliati degli strati superflui e della fiducia nelle applicazioni telefoniche dei profeti.

Ci nascondiamo così all'ombra degli altissimi pini marittimi e riprendiamo l'esplorazione entrando in un altro dedalo, ancora più intricato, che ci porta attraverso camere, camerette, corridoi e piazzette, alla caserma dei vigili del fuoco, molto attivi a causa dei numerosissimi incendi che scoppiavano.

Dopo numerosi tentativi di ritrovare la via per il decumano, ci ritroviamo nella palestra grande delle terme di Nettuno. Salendo gli scalini fino al terzo piano di una terrazza, riusciamo ad ammirarne dall'alto i mosaici che non sono in restauro. Una vista spettacolare, sia dei disegni, che della città. Siamo nei quartieri esterni della “piccola Roma” e nonostante l'altezza non se ne intravede nemmeno i confini.

Scesi dalla torre ci imbattiamo nella prima caupona, una locanda, di cui come testimonianza rimane solo una parte del mosaico a pavimento.

Proseguiamo lungo la strada che sale a nord e ci imbattiamo nelle prime Insulae, i palazzi, praticamente dei condomini, che potevano arrivare anche a cinque o sei piani d'altezza.

Dato che l'acqua corrente arrivava solo al piano terreno, per i piani superiori si doveva attingere alle fontane che stavano in strada.



Torniamo indietro e saliamo subito sugli spalti del teatro che, integro per i suoi due terzi, una volta poteva ospitare fino a quattro mila persone. Certo rispetto ai teatri visitati a Hierapolis o Efeso, è molto piccolo, ma una struttura del genere mi sembra più a misura d'uomo, godibilissimo.

Dietro lo spazio per l'orchestra ci sono ancora le maschere della commedia che per chissà quanto tempo ha divertito il pubblico ostiense. In cima agli spalti ci gustiamo il pranzo prima di ripartire, cercando di immedesimarci negli spettatori di un tempo.

E dopo lo spettacolo? Un giro al centro commerciale.

Si apre infatti di fronte al teatro. la piazza delle corporazioni, dove al centro c'era un tempio, e tutto attorno, sotto i portici, vi erano esercizi commerciali e spedizionieri di altri stati che intrattenevano rapporti con Ostia e quindi Roma. Tra questi alcuni erano l'Egitto, Cartagine, la Mauritania, la Tunisia, la Libia e la Sardegna.





Seguendo le indicazioni della cartina, dopo i quattro tempietti che troviamo chiusi per restauro, dal decumano massimo incrociamo il tempio dei collegiali, quindi ci perdiamo in una zona dove, secondo la mappa, non dovrebbe esserci nulla di interessante. Invece troviamo delle Domus molto belle, la fullonica che altro non era se non una delle lavanderie, e poi scendiamo via casa del pozzo, andando sempre più a sud, fino a raggiungere il campo della magna mater, il tempio di bellona e la porta Laurentina.





Dalla periferia risaliamo verso il cuore della città, diretti al Foro. Scopriamo invece l'entrata di un'altra domus molto carina e le piccole terme del filosofo.

Non sempre guardiamo la cartina, anche perché altrimenti ci perderemmo la grande bellezza attraverso cui stiamo camminando. Difatti lasciamo nuovamente la strada, attirati dalle grandi strutture che, con il gusto dell'archeologo dilettante allo sbaraglio, scopriamo essere le grandissime terme del foro. Con le sue grandi sale, in parte ancora ricoperte di marmo, rivela perfino un percorso sotterraneo attraverso il quale si possono vedere le intercapedini sotto i pavimenti usate per riscaldate l'acqua delle terme. Non solo, dalle pareti aperte spuntano decine di tubature attraverso cui passava probabilmente il vapore.

La giornata è ancora lunga, la città è molto grande e dobbiamo fare una pausa. Saltiamo direttamente ai bagni e da lì Cassandra è attirata come una falena del museo che conserva le statue originali ritrovate negli scavi e scampate ai secoli. Non è molto grande e sinceramente non pensavo ne valesse la pena. Fortunatamente le statue non sono così tante come credevo, inoltre sono molto belle.



Terminata la visita al museo a tempo di record, scendiamo nella via dei mulini, dove riposano numerose case con forni ancora in mezzo alle stanze. Stanno ancora lì, dove li hanno lasciati secoli fa. Per i romani non erano i diamanti ad essere per sempre, ma gli elettrodomestici.





Giriamo per bene tra le case dove i mulini macinavano grano e cereali, quindi scendiamo in un'altra via che porta ad una taverna rimasta spettacolarmente integra. Oltre ai banconi ancora rivestiti in marmo, possiede ancora un grande contenitore, sempre in marmo, e una credenza a gradini, su cui venivano messi in mostra i piatti del giorno. Sopra di essi infatti c'è ancora un'insegna con dipinti delle verdure, il secchio di marmo, e il piatto unico che comprendeva tutto.

A terra, un po' nascosta, c'è un'immensa anfora interrata che probabilmente conteneva il vino. Non si sa cosa contenesse il secchio di marmo, a me piace pensare che fosse per il Garum, una salsa a base di frattaglie di pesce macerate. Roba da antichi.





Proprio di fronte ci sono le scale di un insulae, che portano ai piani superiori. In questa piccola via è quasi possibile immaginarsi come poteva essere la vita quotidiana di duemila anni fa. Le insulae infatti che arrivavano anche a cinque o sei piani, avevano al livello della strada le locande o le botteghe, in cui i commercianti vivevano. Costoro facevano tutti una vita casa e bottega, infatti alla sera, quando chiudevano il negozio sbarravano l'entrata, anche solo con delle assi di legno, e non le riaprivano fino alla mattina.

Queste però erano anche le abitazioni più ricche e migliori, a cui arrivava perfino l'acqua corrente.

Per i piani superiori la gente doveva scendere in strada a riempirsi i secchi. L'acqua diveniva così pesante quanto importante, soprattutto per cucinare, e difficilmente veniva utilizzata per pulire.

Il problema più grande delle Insulae però erano gli incendi. Essendo in legno gran parte delle strutture che le componevano, specie i piani più alti, gli incendi erano molto frequenti. Se si abitava ai piani più alti salvarsi, anche se in città c'era una caserma stabile dei vigili del fuoco, diventava un'impresa quasi impossibile.

Altro aspetto da non sottovalutare erano le condizioni igieniche. I bagni non c'erano e l'urina veniva raccolta in vasi o secchi che, lasciati in strada venivano ritirati dai garzoni delle lavanderie. Questi infatti li utilizzavano come ingrediente per il detersivo dell'epoca.

C'era poi chi abitava molto in alto e non sempre aveva voglia di scendere cinque o sei piani di scale per riporre il secchio, così, senza neanche guardare di sotto, ne svuotava il contenuto fuori dalla finestra. Quando si dice che piovono schifezze...

Poco distante da quel vicolo, proprio di fronte al grande spiazzo del foro, sorge una struttura tra le più grandi e alte di tutta Ostia, il Capitolium. Vi si accedeva tramite un'ampia scalinata, era un edificio la cui funzione è rimasta quella che c'è ancora oggi nella Roma moderna, ovvero il campidoglio. Era qui che le figure politiche si riunivano per discutere i problemi della città.





Scendiamo gli scalini osservando dall'alto il foro e ci spostiamo a destra seguendo sempre la strada. Incontriamo la casa del larario, un esempio di insulae con un larario, una sorta di nicchia composta da rombi e triangoli in un disegno fine e ancora integro. A quasi due metri di altezza, con tutta probabilità doveva contenere una statua.

Torniamo in strada e, facendo attenzione alle bighe ed i carri che corrono lungo il basolato, attraversiamo per andare al tempio rotondo. Non ne rimane molto, solo un terrapieno rettangolare da cui spuntano qua e la dei lastroni di marmo. Andando avanti si entra in quello che doveva essere il cuore del tempio, insolitamente dalla forma rotonda.

Scendiamo dalle scalinate del tempio e giungiamo ad un bivio. Proprio qui c'è la taverna dei pescivendoli. Anche se i muri rimasti sono bassi, i tavoli di marmo ed i banconi bianchi sono ancora integri, così come il pavimento su cui è stato posato un mosaico che rappresenta dei pesci. Da qui il nome, che probabilmente identifica ciò che vi si poteva mangiare. Del resto Ostia antica era in riva al mare.

Proseguiamo lungo la strada, ancora lunga e costellata di case, e sulla destra troviamo i resti di una basilica cristiana. La città infatti è stata si fondata dai romani, ma fu abitata fino al 1300, circa.

Poco più avanti c'è la schola di Traiano, ma sfortunatamente oggi è chiusa al pubblico e così dobbiamo arrampicarci sui resti delle case che le stanno di fronte per poter scorgere qualcosa. Purtroppo lo sforzo è inutile.

Il giorno è stato lungo e il sole ora inizia ad abbassarsi. In mezzo a questa luce più colorata, ma meno calda, continuiamo a camminare sul basolato, passando accanto ad una fontana di marmo a lucerna. Ancora molto bella con le sue numerose bocche. Chissà quanto poteva essere splendida secoli fa quando era in funzione.

La camminata storica ci porta fino alla Caupona di Alexander Helix. Dai resti dei mosaici non si riesce a capire quale fosse la specialità di questa taverna, si legge solo il nome. Probabilmente era il proprietario, oppure un grande chef.

Proprio accanto alla taverna doveva esserci la porta marina, quella che un tempo si affacciava all'antica spiaggia. Non è rimasto granché della porta, solo che il basolato si restringe parecchio e ai lati è scavato. Forse qui c'erano le due torri di guardia che col tempo sono state smantellate.

Accompagnati da una luce crepuscolare, manco farlo a posta ci ritroviamo in un altro cimitero.

Cassandra vuole vedere l'antica spiaggia, ma come sospettavo non esiste più, in duemila anni il livello del terreno è salito molto e ormai al suo posto c'è una strada su cui corrono automobili e camion. Il mare si è allontanato così tanto che neanche si vede.

Rientriamo in città per cercare uno dei gioielli di Ostia antica: la casa delle sette muse, dove ci sono degli splendidi affreschi. Dopo qualche tentativo finalmente la troviamo, ma rimaniamo delusi dal constatare che la casa è chiusa. Non ci rimane altro da fare se non arrampicarci sui muri esterni per poter sbirciare all'interno i magnifici mosaici e gli affreschi delle muse. Dopo aver girato invano attorno alla casa, cercando un punto di osservazione decente, ci imbattiamo nella piccola, ma carina, domus del ninfeo. Non molto lontano sorgono i resti delle case a giardino. Queste erano un nuovo quartiere voluto da Adriano per fare seguito allo sviluppo demografico della città.

Scusate, ho detto Adriano? Volevo dire l'imperatore Adriano. Del resto da quando siamo stati in visita a Villa Adriana è come se fossi diventato un suo conoscente.

Queste nuove case a giardino, tra cui ogni tanto spunta ancora qualche muro leggermente colorato, dovevano essere una residenza per un ceto medio alto.





Un po' delusi dallo stato di conservazione dei muri intonacati, imbocchiamo il cardo degli aurighi, una via su cui campeggia un grande caseggiato, detto anch'esso degli aurighi. Ci infiliamo tra gli ampi archi, ispezionando ogni stanza in cerca di qualche affresco, poi troviamo delle scale che salgono, salgono, e salgono ancora, di ben tre piani. La vista dalla terrazza è veramente bella, anche se non doveva essere nulla al confronto di quella che godevano i poveri abitanti degli ultimi piani.





Scendiamo e ci imbattiamo nella parete che ha dato il nome a questo caseggiato: due aurighi, affrescati su una parete del pian terreno, si sfidano in una gara con le loro bighe. Il disegno è molto ben conservato e protetto da lastre di vetro. Ne abbiamo viste molte di pareti affrescate qui a Ostia antica, ma solo questa mi sembra sia stata così accuratamente protetta.

Sarà che, oltre a sentirmi conoscente di Adriano, dopo una giornata vissuta cercando di immaginare la città di duemila anni fa, inizio a pensare proprio come un cittadino ostiense. Capisco che in un sito del genere ci siano così tante cose da vedere e da gestire, che si fa fatica a pensare di conservare tutto, ma questa che merita ben più di altre, alla fine risulta un po' difficile da trovare. Forse sono solo io che sto diventando pignolo. O forse lo ero già prima?





Proseguiamo la visita tra stanze, corridoi e scale, fino a trovarci in mezzo alle terme dei sette sapienti.

Anche qui c'è una scalinata che porta in alto, anche più di quella precedente. La vista però volge sull'altro lato del caseggiato, da cui si vede la via della foce.

L'ora ormai è tarda e il tramonto è prossimo. Calchiamo il basolato della via della foce su cui si affaccia il caseggiato dei misuratori di grano, testimoniato da un enorme e magnifico mosaico.

Incontriamo poi le Horrea Epigathiana e l'area sacra repubblicana, una zona ricca di templi e tempietti dedicati agli dei dell'era repubblicana.

Stremati e letteralmente ubriachi come due consoli che escono da una Caupona dove hanno prosciugato una giara di vino, strisciamo fino alla piccola, ma molto carina, Domus di amore e psiche.

Quindi, lentamente, soddisfatti e barcollanti per l'overdose di archeologia, ci rifacciamo tutto il decumano massimo, senza nemmeno sentire più la gibbosità dell'antico basolo.

Non soddisfatti della visita, decidiamo di tornare gradualmente ai nostri tempi: attraversiamo la strada tenendo bene in alto le nostre tuniche e fermando le bighe e le quadriglie che altrimenti ci calpesterebbero.

L'orologio del nostro viaggio gira vorticosamente fino a farci piombare nel borgo di Ostia antica, dominato dal magnifico castello, a base triangolare, fatto costruire da Papa Giulio II. Ai suoi piedi il borgo è ancora molto pittoresco, con la sua chiesetta e le poche ma ben raccolte case che ne fanno da cornice.

Una nota stonata il matrimonio di due disgraziati che non sanno a cosa vanno incontro. Il tempo, come per Ostia antica, farà il suo dovere.