Andando
al lavoro in metropolitana passo ogni giorno dalla basilica di san
paolo, ma ovviamente non mi ci ero mai fermato.
Qui
sorge una basilica grandissima che, pur essendo stata ricostruita in
seguito al devastante incendio del 1823, dovrebbe aver mantenuto la
stessa forma e dimensione. Nella basilica di San Paolo fuori le mura
è conservata la tomba dell'apostolo Paolo. Pare fosse siriano e che
perseguitasse i cristiani, prima di convertirsi. Va be ma sto
divagando.
Prima
di visitare la necropoli uno sguardo all'immensa basilica glielo
diamo e devo dire che è veramente grande, forse seconda solo a san
Pietro e San Giovanni.
All'orario
dell'appuntamento con l'archeologa dell'associazione l'asino d'oro,
ci troviamo all'entrata secondaria della basilica, come indicato
dalla mail, solo che non c'è nessuno. Giriamo attorno alla basilica
un paio di volte. Quando passiamo il cartello del terzo chilometro di
giro a vuoto Cassandra mi suggerisce di provare con una profezia.
Purtroppo ho finito il credito profetico e sono costretto ad
affidarmi al telefono. Per fortuna troviamo il gruppo che stava a più
di cento metri nel parco. Le indicazioni sul ritrovo stavolta
lasciavano un po' a desiderare.
Ed
eccola la necropoli di San Paolo fuori le mura. In realtà il sito da
vedere è proprio piccolo: un'apertura del terreno ci mostra una
manciata di stanze, anche se molto ricche. A quanto pare l'intera
necropoli giace ancora tutta sotto il parco ed il quartiere San
Paolo, e non è mai stata indagata. Con Cassandra ci basta uno
sguardo per capirci: "Chissà cosa giace lì sotto a pochi metri
dalla superficie".
L'archeologa
intuisce i nostri pensieri e ci dice subito che non dobbiamo
aspettarci di trovare chissà quali tesori. I defunti infatti
venivano sepolti si con oggetti di loro proprietà, ma non gioielli,
che si tenevano i parenti vivi. Nei rari casi in cui accadeva era
perché il padrone della tomba doveva essere davvero molto molto
ricco.
Nelle
poche e piccole stanze che vediamo ci sono solo colombari che
potevano contenere due, tre e a volte quattro urne cinerarie.
Erano
stanze strette e profonde, dove, nonostante venisse ottimizzato ogni
possibile spazio, angolo o parete, c'era sempre posto per la
targhetta che indicava il nome del defunto.
Chi
poi ne aveva la possibilità si faceva scolpire un ritratto o metteva
un iscrizione sulla lapide o su un pilastro. Tutte le iscrizioni
iniziavano per "Dis manibus", in modo da dedicare il
sepolcro agli dei Mani, che erano proprio coloro che ne dovevano
scongiurare le manomissioni. Solo dopo tale scritta venivano aggiunti
i tre identificativi: il nome, il Gens, ovvero il clan di
appartenenza, ed in fine il cognome.
Da
vedere sembra ci sia poco, ma è tutto concentrato. Le informazioni
che ci racconta l'archeologa sono interessanti, molto ritroviamo del
modo di vivere il rito funebre dei romani in quello che è il nostro
di oggi. Tra le varie similitudini troviamo i Libitinari, ovvero gli
impresari delle pompe funebri che si occupavano del corpo del
defunto.
Si
usava già che dopo la cerimonia alcune persone portassero il corpo
del defunto in spalla fino al sepolcro, così come la processione.
Oggi non si usa più invece mettere una moneta nella bocca del
defunto per pagare il traghettatore Caronte.
C'erano
poi delle donne pagate per piangere. Più piangevano è più
strillavano e meglio era. Queste raccoglievano addirittura le loro
lacrime in piccoli contenitori, in modo da dimostrare di aver
adempiuto al loro compito ed essere pagate. Al contrario di oggi
c'era chi assumeva suonatori e perfino dei gladiatori per dare
spettacoli di lotta. Non lo sapevo, ma pare che i gladiatori siano
nati proprio in questo modo: come spettacoli funebri.
Una
cosa diversa da oggi, e che per fortuna non si usa più, è quella di
far indossare una maschera ad una persona, appositamente pagata, in
modo da impersonare il defunto. Lo scopo era quello di farlo
partecipa al suo stesso funerale.
Mi
fa venire in mente la canzone di Jannacci:
“Si
potrebbe andare tutti al tuo funerale, per vedere l'effetto che
fa...”
Dato
che si poteva decidere se farsi cremare o inumare, chi sceglieva il
fuoco, prima di incenerire il corpo, doveva tagliare un dito al
cadavere per poterlo seppellire ed avere una parte del corpo a
contatto con la terra. Questo perché la terra era vista come
purificatrice.
Alla
fine di tutto il rito si mangiava, perché mangiare era l'azione
simbolo che separava i vivi dai morti: chi moriva non poteva
mangiare. Chi poteva permetterselo dava perfino un grande
banchetto.
Altra
usanza arrivata fino a noi, oggi visto come rito scaramantico, è
quella del lancio del sale dietro le spalle: per evitare che gli
spiriti dei parenti potessero tornare a perseguitare i vivi si usava
il sale, allora preziosissimo. Ovviamente il lancio era simbolico.
In
ogni caso pare che già allora le persone fossero molto
superstiziose...
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