sabato 8 febbraio 2025

Domenica 3 novembre - Maratona

 

Dopo aver passato come sovente accade, una pessima giornata di attesa, sono incredibilmente riuscito a dormire qualche ora. Giusto per avere solo tre borse sotto gli occhi.

 

Nonostante il cambio dell’ora favorevole mi sveglio molto presto, almeno un’ora e mezza prima del previsto. Faccio colazione. Scendo a prendere un paio di banane nel negozio di fronte aperto 24h. Mi serviranno più tardi.

Il ritrovo è fissato alle 5:30 per prendere il pullman che parte alle 5:45 e ci porterà dall’altra parte del ponte di Verrazzano, partenza della maratona.

Siedo accanto ad un signore di Bologna molto simpatico. Il viaggio, più lungo del previsto, passa comunque velocemente. Il gran traffico ci consente di rimanere al caldo dell’autobus per un’ora in più. Mi sembra già un ottimo inizio.

 

Il sole si fa vedere, le temperature si sono abbassate tantissimo, c’è un vento molto freddo, all’ombra si gela.

Per fortuna ho ancora addosso i vestiti che abbandonerò più tardi, soprattutto ho indossato il sacco nero della spazzatura che attira i raggi solari e mi riscalda.

Davanti a me in fila un asiatico è in calzoncini e canottiera, sta tremando dal freddo, non lo invidio per niente.

 

Dopo un’ora di attesa finalmente abbiamo la possibilità di trovare un angolo per sederci. Quando mi muovo sento i polpacci già preda di strani dolori... Le mie ansie notturne si risvegliano e iniziano a sussurrarmi che era scritto: “Tu, uomo, correrai coi crampi!”

Il pessimismo si impossessa di me, realizzo di tutta la magnifica organizzazione sponsorizzata, non vedo alcuna traccia. Dicevano avrebbero distribuito the caldo e bagels...Vedo solo bottigliette di acqua gelata!

 

Sto per rilassarmi al caldo del sacco nero quando il cannone spara dei colpi: sono partiti i primi! Pochi minuti e parte un altro colpo! Fra poco tocca a noi, giusto il tempo di trovare le gabbie.

Seguendo il consiglio di Daniele, provo a cambiare posto mettendomi sulla parte alta del ponte, giusto per avere un po' di sole e soprattutto il panorama libero. Se non mi dovessero far passare, mi toccherà correre al livello inferiore, nella fredda oscurità.

Mi avvicino, mostro il pettorale sotto il sacco nero e… Passato!

Già mi sento fortunato di avere un po’ di sole a scaldarmi!

L’annuncio diceva di gettare i panni da donare prima di entrare nella gabbia, in realtà lo si poteva fare anche dentro.

Mi rimane solo il mio fidato sacco nero che nel frattempo si è strappato e lascia entrare molta aria fredda…

Sfortunatamente devo rifare pipì e mi sono già tolto tutti i vestiti caldi…Ora sono io che tremo come l’asiatico…. Speriamo di farcela in tempo altrimenti… Sul ponte non potrò farla, rischierei la squalifica…

Giusto in tempo!

Ci incamminiamo verso la linea di partenza, pochi minuti e giunge anche per noi il colpo di cannone!!!

Con un urlo di liberazione inizio a saltellare a tempo di musica insieme a tutto il ponte, l’adrenalina ha un’impennata pazzesca. Mi tolgo il sacco nero, il freddo e inizio a correre. La gara è partita!

 

Non so dove arriverò, è la mia ultima maratona per cui andrà bene in ogni caso. Saranno pure serviti a qualcosa tutti questi mesi di allenamenti?

Il primo chilometro e mezzo è tutta salita. C’è molta gente, non posso andare veloce neanche volendo, così mi attesto al ritmo della mandria e mi godo il panorama dal ponte sospeso più grande di New York: a destra l’oceano, a sinistra lo Sky Line di Manhattan.

Arrivato in cima la musica cambia: sono in discesa, le gambe vanno da sole. Sì, sì, lasciale andare che ci scaldiamo un po’. Anche se c’è il sole, l’aria è ancora frizzante.

 

Scendiamo dal ponte e a questo punto devo spegnere la musica delle auricolari. Non mi serviranno più per tutto il resto della gara. Ci infiliamo infatti nelle strade di Long Island dove ci si immerge in un casino come in un concerto da stadio. Il tifo è indiavolato, la musica suonata a tutto volume dalle case, a bordo strada dalle band, è così alta che non riuscirei a sentire la mia musica.

Una partecipazione incredibile, sembra che tutta la città sia venuta a vedermi correre.

 

Ovviamente non sono qui per me, però i primi dieci chilometri volano alla velocità per cui mi sono allenato duramente, inizia qualche salita e mi ricordo chi sono e quali sono i miei limiti. Rallento un filino, giusto per non arrivare al 15° ed avere già i crampi come mi è già successo in passato.

Vorrei pensare ad una strategia per non scoppiare, il fracasso è davvero fortissimo, specialmente quando qualcuno che corre vicino a me viene intercettato dai propri supporters: urla disumane, bombe e tric trac esplodono ogni cento metri come se stessero tagliando un traguardo invisibile.

La cosa si ripeterà per tutta la gara, qui sarà il momento più intenso e quasi mi stordisce.

 

Cerco di aumentare il passo per lasciarmeli indietro. Non è facile, qualche salita e soprattutto queste festicciole creano dei piccoli ingorghi che non mi permettono di correre come vorrei… Tocca fare lo slalom anche oggi.

Tutto questo trambusto inizia a diventare pesante, assordante. Sembra di stare in uno stadio con gente che urla.  Il rumore ce l’hai a pochi metri e anche se sprona, un po’ infastidisce.

Come se non bastasse, al quindicesimo si manifesta l’avvisaglia di qualcosa che non va… mal di pancia!

Per ora è solo un pensiero, dopo che sono stato male ieri il pensiero diventerà poco a poco ansia… Preoccupato di non arrivare fino in fondo cerco di tenere a bada le gambe che vorrebbero andare più forte.

Verso metà gara sono in zona Queens, vedo il quartiere da sopra un grande ponte, in salita ovviamente.

Sono un po’ demoralizzato perché ho appena visto il tempo della mezza ed è molto più lento di quello che volevo… L’orologio non risponde! Ho rallentato troppo? Dove ho sbagliato?

Cerco di calcolare il ritmo a cui sono andato ma il diagramma di Nyquist che disegno nella mia mente per verificare la stabilità non c’entra nulla con la realtà e mi demoralizzo ancora di più.

Sotto di me mi pare di vedere palazzi vecchi, più o meno come quelli da cui si affacciava Eddie Murphy gridando “Ti amo New York” e mi viene in mente solo la risposta ricevuta…

Per di più sta per arrivare il ponte di Queensboro… il maledetto ponte di Queensboro…

Daniele aveva detto che era il punto peggiore della gara. Si dimostra tale: tutto in salita e lunghissimo.

Qui credo di aver tenuto il passo più lento di tutta la maratona e, soprattutto, di non averci capito un Queensboro.

Intanto la salita sembra inizi molto prima del ponte lungo 1 km e 100. Mi aspettavo di arrivare a metà ponte e iniziare a scendere, seeee lallero! Una volta giunto all’isola in mezzo al fiume il percorso ha continuato a salire, e lo ha fatto fino a Manhattan, quando la discesa si è manifestata in due tornanti ripidissimi a cui non ho saputo resistere e verso i quali mi sono lanciato in picchiata.

Via, via il più lontano possibile dal Queensboro.

 

First Avenue. Un rettilineo lunghissimo, assordante ma gestibile, tutto sommato divertente. Temevo per il suo saliscendi, non ho patito per niente. Forse aver sofferto così tanto il ponte è servito a qualcosa.

 

Ero anche un po' distratto: cerco Cassandra tra la folla. Non la vedo. Cerco Cassandra, non la sento… Non è che si è persa a New York? Stai a vedere che dopo la maratona ne devo fare un’altra per riportarla a casa… Già mi vedo al commissariato a cercare di fare un identikit e ogni volta mi disegnano la Fornarina (io la vedo così).

 


Conto le strade dalla 66° alla 120° senza vederla, arriva un altro ponte e la salita mi riporta alla realtà: siamo nel Bronx, da dove inizia la fuga dei Guerrieri della notte. Tutto bello, tranquillo e veloce, come in tutta la maratona la gente è festosa e offre di tutto: dal bicchiere di birra, alle bottigliette d’acqua, alle banane (che prendo al volo), ai gel, ai semplici fazzoletti di carta o solo una mano da schiaffeggiare per farsi dare forza.


Un cartello avvisa “The last fucking bridge!”.

Tutto contento vado verso la discesa. Un’ambulanza parte a sirene spiegate, la tranquillizzo baldanzoso “Dopo! È ancora troppo presto!!!”.

Nessuno mi capisce ma guardando il mio cappellino mi incoraggiano chiamandomi Flash.

 

Giriamo attorno ad un parco e già intravedo Central Park dove inizia la quinta strada con la sua salita e proprio lì il mal di pancia, fino ad ora gestibile, torna alla carica in modo prepotente.

I crampi allo stomaco e questa salita che sembra lunghissima sono capaci di rallentarmi parecchio, almeno fino a quando non entriamo un paio di chilometri più in là nel parco.

 

Mancano sei chilometri. Non lo sapevo, sapevo solo di vedere la luce.

 


È autunno, la mia stagione preferita. Mentre cadono le foglie dai tanti alberi attorno a noi, scendo verso il fondo del parco superando gente che come me non ce la fa più.

A volte vengo ancora salutato dal pubblico, forse per la velocità apparente, forse per il cappello di Arale, forse perché in quel momento c’ero solo io da salutare… I successivi quattro chilometri mi autoconvinco che ne mancano solo due.

 

Usciamo da Central Park. Sull’orologio un messaggio di mia sorella dall’Italia mi dice: dai, manca solo un km!

Solo allora mi rendo conto che è fatta.

 

Continuo a correre come posso, sapendo che fino agli ultimi cento metri non vedrò il traguardo. Quasi non sento l’emozione per il mal di pancia, taglio il traguardo.

Stordito e incredulo di esserci arrivato, in 3 ore e quaranta.

Se mi avessero chiesto di firmare per questo tempo prima della partenza non credo lo avrei fatto, ma dopo averla fatta…

 

Un viaggio, in mezzo ad una parte di Stati Uniti che non avevo ancora visto e gustato, in una città che festeggia questa gara come mai nessuno ha fatto e farà.

Migliaia di cartelli e di mani tese per dare la carica a quasi sessanta mila sconosciuti.

Mentre mi mettono la medaglia al collo la commozione prende il sopravvento, finalmente inizio a rendermi conto.

Sono tutti felici e piango. Anche io sono felice.

 

È stata veramente dura, probabilmente per le mie condizioni fisiche precarie e magari perché è veramente tosta come maratona. Non lo posso sapere ora, forse un giorno tornerò per scoprirlo.

Avevo detto sarebbe stata la mia ultima maratona... Ora non sono proprio sicuro di poter rinunciare a tutto questo divertimento. Sì, perché nonostante tutto mi sono divertito da morire.

Come premio per essere arrivato sano alla fine mi vado a prendere tre fette giganti di pizza al taglio ed una birra gelata.

Ci volevano!

Ora sono pronto a ripartire e, con la Fornarina Cassandra, andiamo verso un mercatino delle pulci che ho trovato mentre uscivo dalle transenne della maratona. Ovviamente al collo porto la pesantissima medaglia, nel senso che è veramente pesante, non solo figurativamente.

Al mercatino qualcuno mi fa anche le congratulazioni e sembra di essere finiti in un film di Woody Allen. Non compriamo nulla, anche perché poi vaglielo a spiegare a quelli del check-in che quel lampadario di vetri colorati l'ho preso ad un prezzo imperdibile. Tutto sommato l’atmosfera, che ancora non riesco a descrivere bene, mi piace molto, è proprio come in un film.

Sarà la pizza, sarà la birra, sarà l’Imodium, ora mi sento bene, cosa molto insolita per me dopo una maratona. Non ho alcun dolore alle gambe e ho voglia di camminare. Ci dirigiamo verso Central Park per andare a vedere il parco, direzione riserva idrica Onassis. Ci manca ancora un pochino per arrivarci, il parco è veramente grande, e nei pressi di alcuni campi da baseball una signora mi ferma per vedere la medaglia e poi mi fa pure una foto.

Girovaghiamo un pochino, inizia a far freddo e ritorniamo a casa. Sulla strada del ritorno, ormai al tramonto, sono ancora tanti che vedo uscire dal parco con la medaglia al collo e il poncho arancione. Vedo perfino i due signori di Bologna, marito e moglie, con cui ho chiacchierato durante il primo allenamento. Non potendola correre, l'hanno camminata. Si sono comunque divertiti.

Giunti in hotel, ancora non hanno rifatto la camera. Rimaniamo nella hall in attesa che finiscano. Fuori è ormai buio, saranno le sei e mezza passate e, silenziosa come un ninja, spunta nella hall una sciura che avrà avuto 70/75 anni. Dal poncho arancione della maratona spuntano solo la visiera del cappellino e un paio di occhiali, dietro i quali c'è il volto impassibile di chi ha vissuto qualcosa che non può raccontare. D'improvviso il marito, spaparanzato a leggere il giornale sulle poltrone della Hall, la vede e scatta ad abbracciarla. Lei non riesce neanche ad alzare le braccia per ricambiare. Lui non la molla e rimane così per qualche minuto. Inizio a pensare che appena la lascia, lei crollerà come un pezzo di stoffa bagnato.

Invece, appena la libera, questa senza una parola e senza alcuna espressione sul volto si dirige verso l'ascensore. Se il marito non l’avesse seguita di corsa, sarebbe rimasto a piedi. Anche questo è partecipare a New York.

Dopo cena usciamo a fare una passeggiata. È l'ultima serata in questo quartiere e vogliamo salutarlo facendo un'ultima spesa al mercatino.

Tra le tante cose che mi hanno colpito della città, a parte l’odore di marjuana ovunque, ci sono le biciclette elettriche. In realtà non mi hanno colpito, ma ci è mancato poco.

Sono dei missili terra aria!

Accanto al marciapiede delle strade di Manhattan c'è sempre la ciclabile. Prima di attraversare, anche se il semaforo è verde, bisogna sempre fare attenzione a questa corsia perché vi passano dei razzi che a volte neanche si fermano ai semafori. Altro che Glovo, qui a New York ci sono dei pazzi assassini che se non stai attento ti portano via con loro e ti consegnano assieme alle pizze.

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