Dopo aver
passato come sovente accade, una pessima giornata di attesa, sono
incredibilmente riuscito a dormire qualche ora. Giusto per avere solo tre borse
sotto gli occhi.
Nonostante il
cambio dell’ora favorevole mi sveglio molto presto, almeno un’ora e mezza prima
del previsto. Faccio colazione. Scendo a
prendere un paio di banane nel negozio di fronte aperto 24h. Mi serviranno più
tardi.
Il ritrovo è
fissato alle 5:30 per prendere il pullman che parte alle 5:45 e ci porterà
dall’altra parte del ponte di Verrazzano, partenza della maratona.
Siedo accanto
ad un signore di Bologna molto simpatico. Il viaggio, più lungo del previsto,
passa comunque velocemente. Il gran traffico ci consente di rimanere al caldo
dell’autobus per un’ora in più. Mi sembra già
un ottimo inizio.
Il sole si fa vedere, le temperature si sono abbassate tantissimo,
c’è un vento molto freddo, all’ombra si gela.
Per fortuna
ho ancora addosso i vestiti che abbandonerò più tardi, soprattutto ho indossato
il sacco nero della spazzatura che attira i raggi solari e mi riscalda.
Davanti a me
in fila un asiatico è in calzoncini e canottiera, sta tremando dal freddo, non
lo invidio per niente.
Dopo un’ora
di attesa finalmente abbiamo la possibilità di trovare un angolo per sederci.
Quando mi muovo sento i polpacci già preda di strani dolori... Le mie ansie
notturne si risvegliano e iniziano a sussurrarmi che era scritto: “Tu, uomo, correrai coi crampi!”
Il pessimismo
si impossessa di me, realizzo di tutta la
magnifica organizzazione sponsorizzata, non vedo alcuna traccia. Dicevano avrebbero distribuito the caldo e
bagels...Vedo solo bottigliette di acqua gelata!
Sto per
rilassarmi al caldo del sacco nero quando il cannone spara dei colpi: sono
partiti i primi! Pochi minuti e parte un altro colpo! Fra poco tocca a noi,
giusto il tempo di trovare le gabbie.
Seguendo il
consiglio di Daniele, provo a cambiare posto
mettendomi sulla parte alta del ponte, giusto per avere un po' di sole e
soprattutto il panorama libero. Se non mi dovessero far passare, mi toccherà
correre al livello inferiore, nella fredda oscurità.
Mi avvicino,
mostro il pettorale sotto il sacco nero e… Passato!
Già mi sento
fortunato di avere un po’ di sole a scaldarmi!
L’annuncio
diceva di gettare i panni da donare prima di entrare nella gabbia, in realtà lo
si poteva fare anche dentro.
Mi rimane
solo il mio fidato sacco nero che nel frattempo si è strappato e lascia entrare
molta aria fredda…
Sfortunatamente
devo rifare pipì e mi sono già tolto tutti i vestiti caldi…Ora sono io che
tremo come l’asiatico…. Speriamo di farcela in tempo altrimenti… Sul ponte non potrò farla, rischierei la
squalifica…
Giusto in
tempo!
Ci
incamminiamo verso la linea di partenza, pochi minuti
e giunge anche per noi il colpo di cannone!!!
Con un urlo
di liberazione inizio a saltellare a tempo di musica insieme a tutto il ponte,
l’adrenalina ha un’impennata pazzesca. Mi tolgo
il sacco nero, il freddo e inizio a correre. La gara
è partita!
Non so dove
arriverò, è la mia ultima maratona per cui andrà bene in ogni caso. Saranno
pure serviti a qualcosa tutti questi mesi di allenamenti?
Il primo
chilometro e mezzo è tutta salita. C’è molta gente, non posso andare veloce
neanche volendo, così mi attesto al ritmo della mandria e mi godo il panorama dal ponte
sospeso più grande di New York: a destra l’oceano, a sinistra lo Sky Line di
Manhattan.
Arrivato in
cima la musica cambia: sono in discesa, le gambe vanno da sole. Sì, sì,
lasciale andare che ci scaldiamo un po’. Anche se c’è il sole, l’aria è ancora
frizzante.
Scendiamo dal
ponte e a questo punto devo spegnere la musica delle auricolari. Non mi
serviranno più per tutto il resto della gara. Ci infiliamo infatti nelle strade
di Long Island dove ci si immerge in un casino come
in un concerto da stadio. Il tifo è indiavolato, la musica suonata a
tutto volume dalle case, a bordo strada dalle band, è così alta che non
riuscirei a sentire la mia musica.
Una
partecipazione incredibile, sembra che tutta la città sia venuta a vedermi
correre.
Ovviamente
non sono qui per me, però i primi dieci chilometri volano alla velocità per cui
mi sono allenato duramente, inizia qualche salita e mi ricordo chi sono e quali
sono i miei limiti. Rallento un filino, giusto per non arrivare al 15° ed avere
già i crampi come mi è già successo in passato.
Vorrei
pensare ad una strategia per non scoppiare, il fracasso è davvero fortissimo,
specialmente quando qualcuno che corre vicino a me viene intercettato dai
propri supporters: urla disumane, bombe e tric trac esplodono ogni cento metri
come se stessero tagliando un traguardo invisibile.
La cosa si
ripeterà per tutta la gara, qui sarà il momento più intenso e quasi mi
stordisce.
Cerco di
aumentare il passo per lasciarmeli indietro. Non è facile, qualche salita e
soprattutto queste festicciole creano dei piccoli ingorghi che non mi
permettono di correre come vorrei… Tocca fare lo slalom anche oggi.
Tutto questo
trambusto inizia a diventare pesante, assordante. Sembra di stare in uno stadio
con gente che urla. Il rumore ce l’hai a pochi metri e anche se sprona, un po’
infastidisce.
Come
se non bastasse, al quindicesimo si manifesta l’avvisaglia di
qualcosa che non va… mal di pancia!
Per ora è
solo un pensiero, dopo che sono stato male ieri il pensiero diventerà poco a
poco ansia… Preoccupato di non arrivare fino in fondo cerco di tenere a bada le
gambe che vorrebbero andare più forte.
Verso metà
gara sono in zona Queens, vedo il quartiere da sopra un grande ponte, in salita
ovviamente.
Sono un po’
demoralizzato perché ho appena visto il tempo della mezza ed è molto più lento
di quello che volevo… L’orologio non risponde! Ho rallentato troppo? Dove ho
sbagliato?
Cerco di
calcolare il ritmo a cui sono andato ma il diagramma di Nyquist che disegno
nella mia mente per verificare la stabilità non c’entra nulla con la realtà e
mi demoralizzo ancora di più.
Sotto di me
mi pare di vedere palazzi vecchi, più o meno come quelli da cui si affacciava
Eddie Murphy gridando “Ti amo New York” e mi viene in
mente solo la risposta ricevuta…
Per di più
sta per arrivare il ponte di Queensboro… il maledetto ponte di Queensboro…
Daniele aveva
detto che era il punto peggiore della gara. Si dimostra tale: tutto in salita e
lunghissimo.
Qui credo di
aver tenuto il passo più lento di tutta la maratona e, soprattutto, di non
averci capito un Queensboro.
Intanto la
salita sembra inizi molto prima del ponte lungo 1 km e 100. Mi aspettavo di
arrivare a metà ponte e iniziare a scendere, seeee lallero! Una volta giunto
all’isola in mezzo al fiume il percorso ha continuato a salire, e lo ha fatto
fino a Manhattan, quando la discesa si è manifestata in due tornanti
ripidissimi a cui non ho saputo resistere e verso i quali mi sono lanciato in
picchiata.
Via, via il
più lontano possibile dal Queensboro.
First Avenue.
Un rettilineo lunghissimo, assordante ma gestibile, tutto sommato divertente.
Temevo per il suo saliscendi, non ho patito per niente. Forse aver sofferto
così tanto il ponte è servito a qualcosa.
Ero anche un po' distratto: cerco Cassandra tra la folla. Non la vedo. Cerco Cassandra, non la sento… Non è che si è persa a New York? Stai a vedere che dopo la maratona ne devo fare un’altra per riportarla a casa… Già mi vedo al commissariato a cercare di fare un identikit e ogni volta mi disegnano la Fornarina (io la vedo così).
Conto le
strade dalla 66° alla 120° senza vederla, arriva un altro ponte e la salita mi
riporta alla realtà: siamo nel Bronx, da dove inizia la fuga dei Guerrieri
della notte. Tutto bello, tranquillo e veloce, come in tutta la maratona la
gente è festosa e offre di tutto: dal bicchiere di birra, alle bottigliette
d’acqua, alle banane (che prendo al volo), ai gel, ai semplici fazzoletti di
carta o solo una mano da schiaffeggiare per farsi dare forza.
Un cartello
avvisa “The last fucking bridge!”.
Tutto
contento vado verso la discesa. Un’ambulanza parte a sirene spiegate, la
tranquillizzo baldanzoso “Dopo! È ancora troppo presto!!!”.
Nessuno mi
capisce ma guardando il mio cappellino mi incoraggiano chiamandomi Flash.
Giriamo
attorno ad un parco e già intravedo Central Park dove inizia la quinta strada
con la sua salita e proprio lì il mal di pancia, fino ad ora gestibile, torna
alla carica in modo prepotente.
I crampi allo
stomaco e questa salita che sembra lunghissima sono capaci di rallentarmi
parecchio, almeno fino a quando non entriamo un paio di chilometri più in là
nel parco.
Mancano sei
chilometri. Non lo sapevo, sapevo solo di vedere la luce.
È autunno, la
mia stagione preferita. Mentre cadono le foglie dai
tanti alberi attorno a noi, scendo verso il fondo del parco superando gente che
come me non ce la fa più.
A volte vengo
ancora salutato dal pubblico, forse per la velocità apparente, forse per il
cappello di Arale, forse perché in quel momento c’ero solo io da salutare… I
successivi quattro chilometri mi autoconvinco
che ne mancano solo due.
Usciamo
da Central Park. Sull’orologio un messaggio di mia sorella dall’Italia mi dice:
dai, manca solo un km!
Solo
allora mi rendo conto che è fatta.
Continuo a
correre come posso, sapendo che fino agli ultimi cento metri non vedrò il
traguardo. Quasi non sento l’emozione per il mal di pancia, taglio il
traguardo.
Stordito e
incredulo di esserci arrivato, in 3 ore e quaranta.
Se mi
avessero chiesto di firmare per questo tempo prima della partenza non credo lo
avrei fatto, ma dopo averla fatta…
Un viaggio,
in mezzo ad una parte di Stati Uniti che non avevo ancora visto e gustato, in
una città che festeggia questa gara come mai nessuno ha fatto e farà.
Migliaia di
cartelli e di mani tese per dare la carica a quasi sessanta mila sconosciuti.
Mentre mi
mettono la medaglia al collo la commozione prende il sopravvento, finalmente
inizio a rendermi conto.
Sono tutti felici e piango. Anche io sono felice.
È stata
veramente dura, probabilmente per le mie condizioni fisiche precarie e magari perché è veramente tosta come maratona. Non
lo posso sapere ora, forse un giorno tornerò per scoprirlo.
Avevo detto
sarebbe stata la mia ultima maratona... Ora non sono proprio sicuro di poter
rinunciare a tutto questo divertimento. Sì, perché
nonostante tutto mi sono divertito da morire.
Come premio
per essere arrivato sano alla fine mi vado a prendere tre fette giganti di
pizza al taglio ed una birra gelata.
Ci volevano!
Ora sono
pronto a ripartire e, con la Fornarina
Cassandra, andiamo verso un mercatino delle pulci che ho trovato mentre uscivo
dalle transenne della maratona. Ovviamente al collo porto la pesantissima
medaglia, nel senso che è veramente pesante, non solo figurativamente.
Al mercatino
qualcuno mi fa anche le congratulazioni e sembra di essere finiti in un film di
Woody Allen. Non compriamo nulla, anche perché poi vaglielo a spiegare a quelli
del check-in che quel lampadario di vetri colorati l'ho preso ad un prezzo
imperdibile. Tutto sommato l’atmosfera, che ancora non riesco a descrivere
bene, mi piace molto, è proprio come in un film.
Sarà la
pizza, sarà la birra, sarà l’Imodium, ora mi
sento bene, cosa molto insolita per me dopo una maratona. Non ho alcun dolore
alle gambe e ho voglia di camminare. Ci dirigiamo verso Central Park per andare
a vedere il parco, direzione riserva idrica Onassis. Ci manca ancora un pochino
per arrivarci, il parco è veramente grande, e nei pressi di alcuni campi da
baseball una signora mi ferma per vedere la medaglia
e poi mi fa pure una foto.
Girovaghiamo
un pochino, inizia a far freddo e ritorniamo a casa. Sulla strada del ritorno,
ormai al tramonto, sono ancora tanti che vedo uscire dal parco con la medaglia
al collo e il poncho arancione. Vedo perfino i due signori di Bologna, marito e
moglie, con cui ho chiacchierato durante il
primo allenamento. Non potendola correre, l'hanno
camminata. Si sono comunque divertiti.
Giunti
in hotel, ancora non hanno rifatto la camera.
Rimaniamo nella hall in attesa che finiscano. Fuori è ormai buio, saranno le
sei e mezza passate e, silenziosa come un ninja, spunta nella hall una sciura
che avrà avuto 70/75 anni. Dal poncho arancione della maratona spuntano solo la
visiera del cappellino e un paio di occhiali, dietro i quali c'è il volto
impassibile di chi ha vissuto qualcosa che non può raccontare. D'improvviso il
marito, spaparanzato a leggere il giornale sulle poltrone della Hall, la vede e
scatta ad abbracciarla. Lei non riesce neanche ad alzare le braccia per
ricambiare. Lui non la molla e rimane così per qualche minuto. Inizio a pensare
che appena la lascia, lei crollerà come un
pezzo di stoffa bagnato.
Invece, appena la libera,
questa senza una parola e senza alcuna espressione sul volto si dirige verso
l'ascensore. Se il marito non l’avesse seguita di corsa, sarebbe rimasto a
piedi. Anche questo è partecipare a New York.
Dopo
cena usciamo a fare una passeggiata. È l'ultima serata in questo quartiere
e vogliamo salutarlo facendo un'ultima spesa al mercatino.
Tra le tante
cose che mi hanno colpito della città, a parte l’odore
di marjuana ovunque, ci sono le biciclette elettriche. In realtà non mi
hanno colpito, ma ci è mancato poco.
Sono dei
missili terra aria!
Accanto al
marciapiede delle strade di Manhattan c'è sempre la ciclabile. Prima di
attraversare, anche se il semaforo è verde, bisogna sempre fare attenzione a
questa corsia perché vi passano dei razzi che a volte neanche si fermano ai
semafori. Altro che Glovo, qui a New York ci sono dei pazzi assassini che se
non stai attento ti portano via con loro e ti consegnano assieme alle pizze.
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