Stamattina abbiamo un po’ di tempo libero perché la
macchina che useremo per i prossimi tre giorni arriva a mezzogiorno. Tanto per
non perdere tempo, lo sfrutto e vado a correre ancora.
Stavolta prendo la strada per Anakena, un sito dall’altra
parte dell’isola, sempre nella più totale indifferenza di abitanti, turisti e
cani. Sto correndo da circa mezz’ora quando, dopo una salita degna di nota,
incontro un cane non troppo amichevole. In fondo lo sapevo che se c'era un solo
cane stronzo sull’isola lo avrei incontrato prima o poi.
Stavo passando davanti ad una casa, situata a bordo
strada, nel nulla della campagna, quando un cane inizia ad abbaiarmi e corrermi
dietro. Fa niente, è dietro un recinto. Probabilmente è per quello che mi
abbaia: rivendica il suo territorio e la sua libertà di parola. Da un certo
punto di vista lo capisco anche, così mi trattengo dal fargli qualche gestaccio
provocatorio.
A quasi quaranta minuti di corsa decido di tornare
indietro ma, nei pressi della villa solitaria mi aspetta una sorpresa: proprio
come un duellante del far west, sferzato dal vento che gli scompiglia il pelo,
ritrovo il cane in mezzo alla strada. Mi fissa. Inutile sfidarlo. Torno
indietro e faccio su e giù per un tratto finché non passa una macchina. Basta
un cenno e questa si ferma, manco fosse un autobus dell'Atac. Non serve nemmeno
chiedere un passaggio che il padrone del veicolo, prima ancora di aver fermato
l’auto si sporge e mi apre la porta.
Nel mio spagnolo da turista, appena accennato dal viaggio
in Perù e migliorato poi guardando la serie Narcos, cerco di spiegare che mi
serve un passaggio breve, solo per metterla in quel posto al cane stronzo.
Lui capisce tutto.
-Italiano?
-Sì!
-Buona giornata! - Cerca di sorprendermi con un saluto
perfetto. In effetti.
-Bravo! Jo soy Luca.
-Ricardo. - Si presenta allungandomi la mano.
Subito passiamo davanti al cane e glielo indico:
-Esto es el perro cavron! Me voleva matar!
Ricardo si mette a ridere e mima il cane che mi assale.
Ok ora posso scendere, anche perché su quella jeep c’è
una puzza di benzina fortissima e Ricardo fuma e sparge cenere ovunque. Non
vorrei saltare in aria passando dalla padella alla brace.
-Stop a chi! A chi esta bien. Por mi es ok.
-A chi?
Non ci crede. Ridendo pensa ad uno scherzo.
-Sì, sì a chi esta bien. Me voi ad alenarme por la
maratona! Muchas gracias!
Ricardo si ferma e mi saluta mentre riparte lasciandomi
in mezzo al nulla.
Più tardi, ripensandoci forse potevo essere più chiaro.
Il mio spagnolo lascia molto a desiderare e non vorrei che abbia capito chissà
cosa. Temo che dovrò guardare qualche altra serie in spagnolo. Coi sottotitoli.
Finisco la corsa e torno a casa dove Cassandra mi racconta dell'esperienza mistica appena vissuta. Essendo domenica c'era la messa, ma il prete non era proprio
una classica figura cristiana: era mezzo prete e mezzo sciamano, con tutto il corredo di piume a decorare il suo abito. Inoltre nella chiesa, al posto del santo c'era la statua di un uomo con la testa di uccello e le ali. Una perfetta fusione della religione dell'uomo uccello con il cristianesimo. Ma non finisce qui: è prevista la costruzione di una nuova chiesa che invece della classica struttura avrà la forma di una tartaruga.
È arrivata la macchina.
Pier ha concluso il miglior autonoleggio che si possa
fare: niente moduli da compilare, niente assicurazioni da stipulare: una
stretta di mano con il proprietario del nostro ostello e via.
Probabilmente è la macchina di un suo parente, ma costa
un terzo delle altre e ci stiamo tutti senza problemi.
Alpitour? Ahi ahi ahi!
Partiamo allora per Anakena, una delle uniche due spiagge
di sabbia dell’isola.
Il viaggio è breve, l’isola non è grande, ma proprio nel
centro ci ritroviamo immersi in una foresta di eucalipti. Ovviamente sono
piante portate dall’occidente, ma dalle dimensioni di alcuni esemplari sembra
che siano qui ormai da molto tempo.
Arriviamo alla spiaggia, circondata da un piccolo
boschetto di palme a guardia di un soffice manto d’erba. In fondo si sente il rumore
del mare, ma ancora non si vede. Una duna di sabbia corallina ne impedisce la
vista. Inoltre accanto ad essa spiccano altri Moai, forse i meglio conservati
dell’isola.
Sono sette, di cui quattro col cappello, che poi voleva
rappresentare la capigliatura, non un copricapo. Cinque di essi sono interi,
gli ultimi due non hanno la testa.
Ce ne è un altro, solitario, poco più in là. È solo ma
sta più in alto degli altri e sembra che guardi a vista questi guardiani.
Anakena per gli antichi abitanti era un luogo sacro
perché fu qui che sbarcò il primo re quando migrò a Rapa Nui dalla Polinesia.
La leggenda dice che alla morte del re polinesiano, i due
figli si contesero il trono. Lo sconfitto, Hotu Matu'a, dovette andarsene. Per
mezzo di grandi catamarani che potevano portare anche cento persone, viveri e i
bulbi di piante da trapiantare, giunsero sin qui, colonizzando l’isola.
Dopo aver ricevuto energia spirituale sufficiente anche
da questi magnifici Moai, mangiamo sotto il boschetto di palme e poi andiamo in
spiaggia. Purtroppo c’è un bel vento e nonostante il sole, fa quasi frescolino.
Tanto per provare mi tolgo le scarpe e vado a saggiare la temperatura
dell’acqua: il costume ce l’ho. Siamo all’isola di Pasqua, vuoi non mi faccio
il bagno?
L’acqua è fredda, non mi faccio il bagno.
M’ha ciapa’ per un tedesco?
Rimaniamo a goderci la spiaggia per un po’, forse troppo,
perché quando ce ne andiamo verso il prossimo sito, Te Pito Kura, lo troviamo
chiuso. Sono le 17:30 e ci dicono che tutti i siti archeologici da visitare
chiudono a quest’ora.
Un po’ sconsolati ce ne andiamo, prendendo però la strada
della costa. Passiamo accanto al vulcano Poike, che si potrebbe anche scalare
con un bel trekking, e ci ritroviamo davanti a loro: i Moai di Tongariki.
Inevitabilmente fermiamo la macchina ed inizia la strage fotografica.
Anche se siamo lontani e fuori del recinto del sito, si
vedono benissimo, anche perché grandissimi e baciati dal sole pomeridiano.
Sono ben 15 e a vederli così sono incredibili. Forse i
più famosi Moai di tutta l'isola. Vennero rimessi in piedi negli anni sessanta
da un'equipe di giapponesi.
Che dire, già prima adoravo il Giappone, ora proprio mi
viene da idolatrarlo come entità spirituale.
L’effetto che hanno ottenuto è davvero incredibile. Mi
rendo conto che cercare di descrivere a parole la visione di alcune semplici
statue, molto simili tra loro, non rende giustizia e forse nemmeno l’idea, ma
posso assicurare che queste hanno qualcosa di speciale. Forse il mana degli
antenati risiede davvero dentro di essi perché guardandole mi sento allo stesso
tempo elettrizzato e sereno. Sto osservando dal vivo i Moai. Me lo devo
ripetere ogni tanto per ricordarmi che non siamo di fronte ad un film o un
documentario.
Percorriamo a piedi tutto l’immenso recinto e ogni tanto
Pier è costretto a spostare la macchina.
Arriviamo fino all’ingresso e ci assiepiamo come zombie
dagherrotipi al cancello, innescando la curiosità del guardiano, un locale
“attrezzo” da competizione, a giudicare dalle cicatrici, la lunga barba,
capelli intrecciati fino al fondo schiena, i pochi denti e l’aria affannata.
Per tranquillizzare la nostra frenesia ci dice che questo è l’unico sito che
apre presto, alle 7 del mattino, così da poter vedere l’alba attraverso i Moai.
Domani tocca
alzarci presto.
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