Questa mattina volevo correre. Purtroppo non avevo fatto
i conti con i galli dell’isola: alle cinque del mattino hanno iniziato a
cantare. Prima uno, poi tutti assieme. Una sinfonia che neanche il coro finale
dell’inno alla gioia... Tutti stonati però.
Alle sette guardo fuori e c’è un buio pesto. Considerando
che non conosco ancora l’isola e soprattutto come reagirebbero i suoi cani alla
mattina presto vedendo un runner solitario, desisto. Ci proverò stasera con più
calma.
Ora però c’è il trekking al vulcano.
Dopo colazione mettiamo lo zaino in spalla e iniziamo a
camminare rifacendo la strada per l’aeroporto. L’isola è piccola, più piccola
dell'Elba. In tutto ci vivono 7000 abitanti e senza comprare il biglietto che
si fa in aeroporto, o all’ufficio turistico nel centro di Hanga Roa, ci si può
muovere liberamente, ma senza entrare nei siti archeologici.
Per fortuna Pier ha già fatto tutto in aeroporto.
Il vulcano è vicino, basta girare attorno alla pista di
atterraggio dell’aeroporto e si comincia la salita.
Ci godiamo la prima passeggiata mattutina osservando le
varie specie di fiori e piante dalle forme e colori particolari. Tutti gli
alberi però non sono endemici. Furono portati dalle varie spedizioni
occidentali che iniziarono a visitare l’isola da quel giorno lontano di Pasqua
del 1722. Come molti sapranno infatti tutti gli alberi locali furono tagliati
dagli abitanti, forse per trasportare i grandi Moai, ma più probabilmente per
la costruzione delle loro canoe.
Una su tutte le piante che vediamo mi colpisce, più che
altro per la mia golosità: la palta, ovvero l’avocado. Sicuramente è importata.
Attraversiamo tutta la città, che non è più grande del
mio paesino d’origine: l’Oca di Trevi. Anzi è decisamente più piccola.
Dopo esserci lasciati alle spalle la città e l’aeroporto,
arriviamo al primo scorcio di mare dove si può scendere la scogliera nera,
rossa e bianca, fino ad una piccola grotta dove si vedono ancora dei murales
dipinti sulle pareti superiori: l’uomo uccello. Riconosco subito questo posto
che è stato usato in alcune scene del film.
In seguito scopriremo che questo era anche uno dei luoghi
in cui gli abitanti si rifugiarono durante la guerra per le risorse. Purtroppo
venne utilizzata anche come teatro per banchetti cannibali.
Rimaniamo per un po’ imbambolati a guardare le grandi
onde che si infrangono sulle rocce laviche dell’isola. Sono molto alte e sembra
quasi che esprimano disappunto quando vanno a sbattere: hanno viaggio per 4000
chilometri e proprio qui hanno dovuto terminare la loro corsa. Ora dovranno
tornare indietro e ricominciare tutto da capo, tra gli spernacchiamenti delle
loro sorelle che hanno avuto la fortuna di schivare questo triangolino di
roccia.
Quando il sortilegio marino allenta la presa su di noi,
riprendiamo la strada abbandonando l’asfalto per imboccare un sentiero. È quasi
lo stesso sacro cammino che i clan facevano ad inizio primavera per salire al
sacro villaggio dove avrebbero trascorso il tempo che li separava dal giorno
della gara dell’uomo uccello.
Tra alberi strani e fiori colorati e frutti mai visti,
saliamo i trecento metri di dislivello che ci separano dalla vetta. Con calma e
qualche foto, giungiamo alla famosa bocca del vulcano Ranu Kai, anche questo usato
nel film proprio in occasione della gara. È uguale a come lo ricordavo, anzi
probabilmente è meglio.
Il centro è un acquitrino frammentato da centinaia di
isolette di vegetazione. L’effetto del cielo blu che si riflette a macchie
verdi sull’acqua è davvero fantastico.
Un’altra cosa di cui temevo di rimanere deluso ha avuto
l’effetto contrario. Quest’isola è incredibile nella sua semplicità.
Continuiamo la salita e il sentiero passa attraverso dei
cespugli con dei baccelli marroni. Quando il vento li fa muovere, le minuscole
sfere che contengono, producono un suono particolare come fossero piccolissime
maracas, tanto che Cassandra si mette ad agitarne diversi ballando una samba
immaginaria.
Se non sbaglio durante il film si sentiva questo suono.
Pensavo fosse un effetto aggiunto, e invece no! Sono piante vere!!!
Verso l’una siamo finalmente in cima, dove persiste
ancora il villaggio sacro di Orongo.
Da qui partiva la gara dell’uomo uccello in cui i
concorrenti dovevano scendere le pareti del vulcano, nuotare in mezzo agli
squali fino all’isolotto di fronte, rubare un uovo degli uccelli che vi
nidificano e tornare indietro. Praticamente hanno inventato l'Iron Man. La gara
veniva svolta a inizio primavera proprio perché è in quel periodo che l’uccello
marino arrivava a Rapa Nui.
Gli atleti si legavano una fascetta in fronte per poter
trasportare l’uovo e nuotare liberamente, quindi scalare il vulcano fino al
villaggio. Una volta preso l’uovo potevano anche impedire agli altri di vincere
rompendo il loro o, se lo avevano rotto, rubandolo a qualcuno.
Il primo che arrivava decretava la vittoria del proprio
clan, insignendo il capo clan del titolo di Ariki mau, capo politico e
religioso dell’isola.
Pare che questa gara assolse il compito di mettere fine
alle guerre per le scarse risorse del luogo, oltre che soppiantare il culto dei
Moai con quello dell'uomo uccello.
Il villaggio è stato restaurato, ma nelle piccole case
non si può entrare, per fortuna. L’ingresso è così piccolo e basso che
rischierei il colpo della strega.
Pian piano scendiamo dalla strada dell’andata e verso
sera siamo a casa. Giusto il tempo di togliermi le scarpe da trekking e
cambiarmi, quindi uscire a correre, finalmente.
Rifaccio la strada dell’aeroporto, ma dall’altra parte.
Anche qui ci sono cani che spuntano ovunque, ma non sono interessati a me.
Quest’isola mi piace sempre di più.
Quasi al tramonto mi ritrovo al cospetto dei cinque Moai,
dove finisco l'allenamento sotto lo sguardo severo di questi guardiani, quasi
mi volessero dire: “Tutto qui quello che sai fare?”.
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