domenica 28 ottobre 2018

Giorno 2 - Isola di Pasqua - passeggiata con i primi Moai


Sveglia prima dell'alba! Abbiamo un aereo da prendere, tanto per cambiare. Finalmente però ci dirigiamo alla vera destinazione del viaggio: l’isola di Pasqua.
Prima di imbarcarci dobbiamo passare al controllo documenti che è molto rigoroso. Essendo un piccolo paradiso, l'intera isola è considerata un parco nazionale e le forze dell'ordine cilene, prima di concedere il permesso di salire a bordo, si assicurano che tutti abbiano già la prenotazione in qualche struttura e vogliono verificarla. Inoltre non è consentito rimanere sull'isola per più di un mese. Anche qui i controlli sul cibo sono rigorosi per preservare l'ecosistema locale. La cosa mi fa un po' sorridere perché dell'originale Rapa Nui non c'è rimasto molto: tutte le piante e gli animali sono stati importati dagli occidentali dopo la scoperta da parte di Jakob Roggeveen nel 1722.
Pare inoltre che stiano valutando la possibilità di imporre un numero chiuso ai visitatori dell'isola, il che ne preserverebbe l'atmosfera, ma temo che renderebbe ancora più costoso ed esclusivo arrivarci e soggiornarci.
Il volo non è breve, circa cinque ore e mezza, ma rispetto alla tratta per Sao Paulo è una bazzecola.
Appena sbarcati il clima più mite, ma allo stesso tempo fresco, fa capire chiaramente di essere in un luogo del tutto differente da qualsiasi io sia mai stato. Oggi per quest’isola è il primo giorno di primavera, ma i numerosi fiori e i frutti che vediamo sembra siano sempre stati sugli alberi talmente sono grandi e colorati.
L’aeroporto è piccolo, quasi una stazione dei pullman o della metro di Roma.
Mentre aspettiamo che anche le nostre valige compaiano sul nastro trasportatore, ci godiamo lo spettacolo del cane segugio che, incoraggiato da un agente di polizia aeroportuale, scorrazza sul nastro annusando le valige in cerca di qualcosa. A giudicare dall'aspetto robustello del quadrupede, non sembra intenzionato alla droga, ma più probabilmente al cibo.
Ritirati i bagli, diamo una rapida occhiata alla mappa. La strada per l’hotel non sembra eccessiva, così oliamo le ruote dei trolley e ci incamminiamo. Dopo nemmeno cinquecento metri veniamo intercettati da un pulmino con un tizio che sventola un cartello, sopra c’è scritto un nome completo:
Dott. Cassandra Trita Comand. Gran. Grat.C. d'una Barlafus.
Tutti ci giriamo a guardare Cassandra e capiamo che il nostro uomo è venuto a prenderci.
Dopo averci dato una collana di fiori di Bouganville, ci carica in auto. Scopriamo che non eravamo proprio vicinissimi, anche se ce l’avremmo potuta fare ugualmente.
Prendiamo possesso delle camere dell'ostello ed usciamo subito, anche perché qui il fuso orario è avanti di altre due ore. Praticamente sono già le cinque del pomeriggio.
Come attirati verso il mare da una strana energia, scendiamo al porto.
Il primo impatto è strano, case sparse qua e là nella natura sub tropicale, cani che girano ovunque, senza una meta, ma senza nemmeno un territorio da proteggere. Non sono randagi. Non sono brutti e malandati, sono liberi, senza padroni, o meglio: sembrano padroni di se stessi.
Ti guardano e ti osservano dal loro posto, a volte si alzano, ma senza interferire con i tuoi affari. Del resto siamo solo degli altri uomini sulla loro isola.
Al porticciolo, proprio davanti al mare, c’è un magnifico campo di calcio. A fare da eterni spettatori incontriamo i primi tre Moai della nostra vita.
Sono in piedi, a scrutare l’infinito, eterni guardiani dell’isola, ed ora del campo di calcio.
Con una cornice del genere sarebbe un luogo perfetto per una partita del mio libro “Profeti nel pallone”.
Guardandomi attorno vedo che è tutto pulito, tranquillo, pacifico come il nome dell’oceano, anche se il mare sembrerebbe piuttosto forte a giudicare dalle onde. Ma non deve essere sempre così.
Passiamo accanto ad una piccola ma incantevole caletta, con tanto di prato verde e palme, quindi proseguiamo la passeggiata sul mare, incontrando sculture dell’uomo uccello e alcune riproduzioni di Moai, in particolare di quello che ora è al British Museum, caratteristica del quale, era scolpito anche sulla schiena con simboli che probabilmente volevano raffigurare dei tatuaggi.

Poco oltre c'è un cartello che avvisa del pericolo Tsunami. Il fatto che ci abbiano messo una cartello stradale mi fa quasi pensare che possa arrivare anche settimanalmente, in pratica come il mercato: divieto di sosta per Tsunami dalle 05,00 alle 12:00 del sabato.
Tanto per rimanere in tema proprio lì accanto c’è un cimitero.
Le tombe sono particolarmente artistiche, con lapidi o sculture davvero originali. Alcune hanno dei Moai, grandi o piccoli, altre sculture in legno che sembrano incroci tra Bob Marley e Jim Morrison, altre sono piene di fiori tropicali, c’è di tutto. È uno dei cimiteri più allegri che abbia mai visto.
Ammirando i cavalloni che si infrangono sugli scogli, finiamo per imbatterci in loro: i famosi cinque Moai di Ahu Vai Uri.
Sono gli stessi che vidi su una copertina del National Geografic di tanti anni fa. Ora che sono qui di persona capisco di aver fatto bene a fare tanta strada.

Confesso che prima di questo momento avevo un po’ paura. Temevo di scoprire che questo sogno non fosse così bello come me lo ero immaginato. Invece devo ammettere che è meglio di quello che pensavo. Trasmessa da queste cinque statue arriva un’atmosfera surreale che aleggia in tutta la zona. Erette sull’altare cerimoniale, tutto restaurato per rendere l’idea di quello che un tempo dovevano essere, mantiene ancora il camminamento per l'accesso al mare e parte di quello che doveva essere la struttura che si affacciava sull'acqua.

Nessuno sa veramente cosa è successo su quest'isola, gli abitanti sopravvissuti non hanno potuto conservare nulla della loro conoscenza, troppo impegnati a cercare di sopravvivere. Non per niente la gente si spreca ad inventare teorie su teorie, a volte strampalate.
Ecco perché abbiamo deciso di non affidarci ad una guida locale: ci racconterebbero la stessa cosa che troviamo scritta su qualunque guida stampata. I Moai sono le testimonianze più significative e reali che sono state lasciate, per cui posso solo riportare quello che abbiamo appreso da questo viaggio, che sia stato scritto, o che abbiamo percepito.
Le grandi statue venivano erette per il culto degli antenati, da cui gli abitanti traevano forza, potere, o mana, come lo chiamavano i locali.
Lo sento. Non so se sia davvero mana, suggestione, o solo la magia di un desiderio che si realizza, ma quando guardo queste grandi statue sento qualcosa... qualcosa che non sentivo da tanto tempo.
Malgrado il divieto di avvicinarsi entro certi limiti, che impedisce alla gente di toccare le statue, non so quante foto e selfie ho fatto, mantenendo sempre le distanze eh. So solo che ci ho messo un po’ per accorgermi che poco oltre c'erano altri due Moai solitari. Uno con la classica forma spoglia, l’altro invece con il cappello, o Pukao. Guardandolo bene, anche se contro sole, è impossibile non notare qualcosa: è l’unico Moai dell’isola ad avere ancora gli occhi. Sembra che originariamente non fosse stato eretto qui, ma che ce l'abbiano portato solo in seguito ai restauri.

Nuovamente foto e selfie si sprecano come battiti di ciglia. Non contenti andiamo avanti nell’esplorazione e poco lontano ne troviamo un altro solitario. Leggermente più piccolo, ma a questo ci si può avvicinare di più e i selfie vengono meglio.
Soddisfatti del primo bottino fotografico del viaggio, torniamo a casa ancora incantati dalla magia che pervade queste testimonianze, quasi viventi.
Siamo così eccitati dal fatto che probabilmente non abbiamo ancora visto niente, che facciamo fatica a renderci conto del posto in cui siamo finiti.
Domani sicuramente lo capiremo, perché sarà anche più bello.

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