Sveglia prima dell'alba! Abbiamo un aereo da prendere,
tanto per cambiare. Finalmente però ci dirigiamo alla vera destinazione del
viaggio: l’isola di Pasqua.
Prima di imbarcarci dobbiamo passare al controllo
documenti che è molto rigoroso. Essendo un piccolo paradiso, l'intera isola è
considerata un parco nazionale e le forze dell'ordine cilene, prima di
concedere il permesso di salire a bordo, si assicurano che tutti abbiano già la
prenotazione in qualche struttura e vogliono verificarla. Inoltre non è
consentito rimanere sull'isola per più di un mese. Anche qui i controlli sul
cibo sono rigorosi per preservare l'ecosistema locale. La cosa mi fa un po'
sorridere perché dell'originale Rapa Nui non c'è rimasto molto: tutte le piante
e gli animali sono stati importati dagli occidentali dopo la scoperta da parte
di Jakob Roggeveen nel 1722.
Pare inoltre che stiano valutando la possibilità di
imporre un numero chiuso ai visitatori dell'isola, il che ne preserverebbe
l'atmosfera, ma temo che renderebbe ancora più costoso ed esclusivo arrivarci e
soggiornarci.
Il volo non è breve, circa cinque ore e mezza, ma
rispetto alla tratta per Sao Paulo è una bazzecola.
Appena sbarcati il clima più mite, ma allo stesso tempo
fresco, fa capire chiaramente di essere in un luogo del tutto differente da
qualsiasi io sia mai stato. Oggi per quest’isola è il primo giorno di
primavera, ma i numerosi fiori e i frutti che vediamo sembra siano sempre stati
sugli alberi talmente sono grandi e colorati.
L’aeroporto è piccolo, quasi una stazione dei pullman o
della metro di Roma.
Mentre aspettiamo che anche le nostre valige compaiano
sul nastro trasportatore, ci godiamo lo spettacolo del cane segugio che,
incoraggiato da un agente di polizia aeroportuale, scorrazza sul nastro
annusando le valige in cerca di qualcosa. A giudicare dall'aspetto robustello
del quadrupede, non sembra intenzionato alla droga, ma più probabilmente al
cibo.
Ritirati i bagli, diamo una rapida occhiata alla mappa.
La strada per l’hotel non sembra eccessiva, così oliamo le ruote dei trolley e
ci incamminiamo. Dopo nemmeno cinquecento metri veniamo intercettati da un
pulmino con un tizio che sventola un cartello, sopra c’è scritto un nome
completo:
Dott. Cassandra Trita Comand. Gran. Grat.C. d'una
Barlafus.
Tutti ci giriamo a guardare Cassandra e capiamo che il
nostro uomo è venuto a prenderci.
Dopo averci dato una collana di fiori
di Bouganville, ci carica in auto. Scopriamo che non eravamo proprio
vicinissimi, anche se ce l’avremmo potuta fare ugualmente.
Prendiamo possesso delle camere dell'ostello ed usciamo
subito, anche perché qui il fuso orario è avanti di altre due ore. Praticamente
sono già le cinque del pomeriggio.
Come attirati verso il mare da una strana energia,
scendiamo al porto.
Il primo impatto è strano, case sparse qua e là nella
natura sub tropicale, cani che girano ovunque, senza una meta, ma senza nemmeno
un territorio da proteggere. Non sono randagi. Non sono brutti e malandati,
sono liberi, senza padroni, o meglio: sembrano padroni di se stessi.
Ti guardano e ti osservano dal loro posto, a volte si
alzano, ma senza interferire con i tuoi affari. Del resto siamo solo degli
altri uomini sulla loro isola.
Al porticciolo, proprio davanti al mare, c’è un magnifico
campo di calcio. A fare da eterni spettatori incontriamo i primi tre Moai della
nostra vita.
Sono in piedi, a scrutare l’infinito, eterni guardiani
dell’isola, ed ora del campo di calcio.
Con una cornice del genere sarebbe un luogo perfetto per
una partita del mio libro “Profeti nel pallone”.
Guardandomi attorno vedo che è tutto pulito, tranquillo,
pacifico come il nome dell’oceano, anche se il mare sembrerebbe piuttosto forte
a giudicare dalle onde. Ma non deve essere sempre così.
Passiamo accanto ad una piccola ma incantevole caletta,
con tanto di prato verde e palme, quindi proseguiamo la passeggiata sul mare,
incontrando sculture dell’uomo uccello e alcune riproduzioni di Moai, in
particolare di quello che ora è al British Museum, caratteristica del quale,
era scolpito anche sulla schiena con simboli che probabilmente volevano
raffigurare dei tatuaggi.
Poco oltre c'è un cartello che avvisa del pericolo
Tsunami. Il fatto che ci abbiano messo una cartello stradale mi fa quasi
pensare che possa arrivare anche settimanalmente, in pratica come il mercato:
divieto di sosta per Tsunami dalle 05,00 alle 12:00 del sabato.
Tanto per rimanere in tema proprio lì accanto c’è un
cimitero.
Le tombe sono particolarmente artistiche, con lapidi o
sculture davvero originali. Alcune hanno dei Moai, grandi o piccoli, altre
sculture in legno che sembrano incroci tra Bob Marley e Jim Morrison, altre
sono piene di fiori tropicali, c’è di tutto. È uno dei cimiteri più allegri che
abbia mai visto.
Ammirando i cavalloni che si infrangono sugli scogli,
finiamo per imbatterci in loro: i famosi cinque Moai di Ahu Vai Uri.
Sono gli stessi che vidi su una copertina del National
Geografic di tanti anni fa. Ora che sono qui di persona capisco di aver fatto
bene a fare tanta strada.
Confesso che prima di questo momento avevo un po’ paura.
Temevo di scoprire che questo sogno non fosse così bello come me lo ero
immaginato. Invece devo ammettere che è meglio di quello che pensavo. Trasmessa
da queste cinque statue arriva un’atmosfera surreale che aleggia in tutta la
zona. Erette sull’altare cerimoniale, tutto restaurato per rendere l’idea di
quello che un tempo dovevano essere, mantiene ancora il camminamento per
l'accesso al mare e parte di quello che doveva essere la struttura che si
affacciava sull'acqua.
Nessuno sa veramente cosa è successo su quest'isola, gli
abitanti sopravvissuti non hanno potuto conservare nulla della loro conoscenza,
troppo impegnati a cercare di sopravvivere. Non per niente la gente si spreca
ad inventare teorie su teorie, a volte strampalate.
Ecco perché abbiamo deciso di non affidarci ad una guida
locale: ci racconterebbero la stessa cosa che troviamo scritta su qualunque
guida stampata. I Moai sono le testimonianze più significative e reali che sono
state lasciate, per cui posso solo riportare quello che abbiamo appreso da
questo viaggio, che sia stato scritto, o che abbiamo percepito.
Le grandi statue venivano erette per il culto degli
antenati, da cui gli abitanti traevano forza, potere, o mana, come lo
chiamavano i locali.
Lo sento. Non so se sia davvero mana, suggestione, o solo
la magia di un desiderio che si realizza, ma quando guardo queste grandi statue
sento qualcosa... qualcosa che non sentivo da tanto tempo.
Malgrado il divieto di avvicinarsi entro certi limiti,
che impedisce alla gente di toccare le statue, non so quante foto e selfie ho
fatto, mantenendo sempre le distanze eh. So solo che ci ho messo un po’ per
accorgermi che poco oltre c'erano altri due Moai solitari. Uno con la classica
forma spoglia, l’altro invece con il cappello, o Pukao. Guardandolo bene, anche
se contro sole, è impossibile non notare qualcosa: è l’unico Moai dell’isola ad
avere ancora gli occhi. Sembra che originariamente non fosse stato eretto qui,
ma che ce l'abbiano portato solo in seguito ai restauri.
Nuovamente foto e selfie si sprecano come battiti di
ciglia. Non contenti andiamo avanti nell’esplorazione e poco lontano ne
troviamo un altro solitario. Leggermente più piccolo, ma a questo ci si può
avvicinare di più e i selfie vengono meglio.
Soddisfatti del primo bottino fotografico del viaggio,
torniamo a casa ancora incantati dalla magia che pervade queste testimonianze,
quasi viventi.
Siamo così eccitati dal fatto che probabilmente non
abbiamo ancora visto niente, che facciamo fatica a renderci conto del posto in
cui siamo finiti.
Domani sicuramente lo capiremo, perché sarà anche più
bello.
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