mercoledì 31 ottobre 2018

Giorno 5 - Tongariki all’alba senza alba, ma con Cassandra - Waihu Anga Ti - Akahanga - Rano Raraku - Te Pito Kura - Anakena- Ahu Akivi


Arriviamo a Tongariki verso le 7:30, con Pier che ha guidato sulla costa buia, con le sole luci delle auto che ci hanno preceduto a farci da guida.

Quando sbarchiamo c’è già un po’ di gente, ma è ancora buio e il vento soffia su di noi abbassando ancora di più la temperatura mattutina. Anche se ormai qui è primavera, il clima oggi è piuttosto rigido.

Io e Cassandra ci mettiamo in fondo, tanto non si vede nulla. Pier va un po’ più avanti e anche Giuliana lo segue, pur rimanendo a una certa distanza.

Come nelle migliori tradizioni del “io so io e voi non siete un Moai”, c’è poi un italiano che si mette in mezzo, davanti a tutti. Scattando un migliaio di selfie con la sua ragazza di lingua ispanica, impallano tutti i cacciatori di albe che ormai sono cresciuti di numero. Intanto la luce inizia a rischiarare l’ambiente e a far salire la tensione.

Anche prendendolo a male parole, in chiaro italiano per farsi capire, che comprende benissimo, non accenna a spostarsi finché la miccia non prende fuoco. Grazie a lui il processo irreversibile del “se lo fa lui, lo famo pure noi” contagia come un'epidemia anche gli altri astanti di ogni nazionalità fino a quel momento immuni: americani, cileni, brasiliani, cinesi, coreani. Poco alla volta tutti avanzano per accaparrarsi qualche metro in più sotto la fila dei Moai.

Mi sembra di vedere “Pappa e Ciccia”, il film con Paolo Villaggio in cui un gruppo di turisti deve raggiungere l'aereo sulla pista e un alpino li redarguisce dicendo “Non stemo a far la solita corsa vergognosa per i posti al finestrino! Comportemose ben!”.

Ovviamente tutti hanno corso per prendersi il posto migliore.

Il vento si intensifica e le nuvole coprono tutto il cielo, orizzonte compreso. Come se i grandi Mamozi fossero contrariati dal nostro comportamento ai loro piedi. E hanno ragione: invece di litigare dovremmo solo adorarli. Gli dei non sono mica scemi, ci hanno fatto il dispetto di spegnere la luce. Così l’alba passa e nessuno se ne accorge.

L’ira degli dei è implacabile.





Comunque anche così, vedendoli da vicino sono meravigliosi. Sono sempre più felice di essere venuto fin qui assieme a Cassandra. Anche oggi, come ieri, ogni volta che la guardo la trovo imbambolata e assorta da queste figure gigantesche, manco fossero delle opere di Caravaggio, o dei vestiti in super saldo. Ora che ci penso alcune potrebbero essere contemporanee a quelle dell’artista milanese che è vissuto tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600. Pare che abbiano smesso di fare i Moai qualche secolo prima della scoperta dell’isola, quindi non sono proprio contemporanei a Caravaggio.

Comunque loro sono ancora lì, come una immaginaria squadra di calcio dei mondiali che attende l’inizio dell’inno nazionale. Visti così sembrano ancora più veri.





Ci giriamo attorno per vedere anche il mare, in questo punto spettacolarmente scenografico. Per continuare i paragoni calcistici, visti da dietro ci sentiamo tutti il portiere che osserva la barriera su un calcio di punizione.

Ora che il grosso della gente se ne è andata, esploro il sito con calma e, poco prima di ripartire, mi faccio un selfie con un altro piccolo Moai, il quale sfoggia un singolare pizzetto. Trovo che ci somigliamo molto.





Accanto all’uscita ci sono anche altri resti di statue e i loro cappelli. Sono mastodontici.

Torniamo a casa per fare colazione, quindi riprendiamo il nostro compito di esploratori.

Rifacciamo la stessa strada di questa mattina, ma stavolta con la luce del giorno.

Lungo la costa ci sono diversi siti da visitare. Il primo ha delle ricostruzioni delle capanne e case dove vivevano gli antichi abitanti. Ci sono anche altri altari, dove però i Moai sono a terra, alcuni ancora interi e con il volto rivolto verso il basso, altri invece giacciono in pezzi, con il Pukao rotolato lontano da loro.

Moai caduti. Sono stati lasciati così per ricordare quando vennero abbattuti. Uno spettacolo comunque affascinante che mi ha fatto pensare ai ruderi in generale. Sembra quasi che l’uomo ami così tanto i ruderi da crearli di proposito. Siamo così masochisti? Quasi volessimo distruggere il nostro passato e presente per poter un giorno sognare, solo guardando questi resti, immaginando quanto potessero essere belli un tempo e chiedendoci per quale vero motivo abbiamo osato disfare una cosa così magnifica. Un gatto che si morde la coda.





Inevitabilmente mi sorge un altro pensiero inquietante: probabilmente un giorno, oltre a questo, anche le nostre discariche diventeranno dei siti archeologici importantissimi, ricchi di ogni tipo di informazioni, magari anche più dettagliate di quelle che presumiamo di sapere sulla nostra società... Si tratta pur sempre di archeologia eh, anche se dal nostro attuale punto di vista in senso inverso.

Da qui passiamo ad un altro sito con i Moai caduti. Questo accadde poco a poco in tutta l’isola quando le risorse iniziarono a scarseggiare e il culto degli antenati venne progressivamente soppiantato da quello dell’uomo uccello. Durante la guerra per le poche risorse disponibili i Moai vennero abbattuti dai clan nemici che volevano così togliere il mana ai loro avversari per indebolirli.

Verso l’ora di pranzo arriva il piatto forte della giornata.





Il vulcano Rano Raraku.

Praticamente un negozione di Moai.

Esposti sulle pendici del vulcano, le statue modello facevano bella mostra di sé in modo da poter essere scelte quando gli antichi venivano a vedere cosa potevano ispirarli per erigere una statua ai propri antenati.

Per la maggior parte delle statue, dal terreno sporge solo la testa e poco altro, ma sotto sono dei Moai interi. Il tempo e l'erosione del vulcano li ha ricoperti in parte o completamente, producendo però un effetto meraviglioso.





Ce ne sono di modelli e forme che non ho mai visto sull'isola. Anche le dimensioni sono insolite. Il più singolare è quello dalla testa insolitamente tonda e inginocchiato sulle gambe. C'è poi il più grande, ancora ancorato al vulcano. Circa ventuno metri d'altezza. È rimasto lì, solo come modello, quasi a voler avvertire i clienti: “Noi se vuoi te lo facciamo, poi però per portarlo a casa intero sono cavoli tuoi.”





Essendo dei modelli, quindi non terminati, nessuno aveva gli occhi. Queste statue sono tutte rivolte verso il mare, ad eccezione di quelle che non sono cadute o troppo inclinate per vederlo.

Queste statue ricordano degli spettatori di un’arena, rivolti però verso il mare, ad ammirarne il blu intenso che diventa azzurro e poi bianco nelle onde. Ipnotizzati eternamente da questo spettacolo, non si sono ancora stancati di ammirarlo, anche perché probabilmente non c’è mai un'onda identica all’altra. Evidentemente non si vogliono perdere niente dello spettacolo eterno.

Facciamo il giro del vulcano sotto un sole abbagliante e sferzati da un vento fortissimo.

Una domanda ci sorge spontanea: ma la pietra per i copricapi, da dove la prendevano? Qui non vediamo nessun Pukao, per cui quasi certamente non arrivavano da qui.





Terminato il giro, ritorniamo all'ingresso, dove all'inizio della visita avevo notato una biforcazione del sentiero. Vuoi vedere che troviamo il sito da cui estraevano la pietra vulcanica rossa per i Pukao?

Seguendo la strada saliamo lentamente verso una piccola gola che sbuca proprio all'interno del vulcano.

Un'altra meraviglia nascosta, poco segnalata, ma che merita moltissimo.

L’interno del vulcano è un altro anfiteatro, con alcuni Moai accomodati sugli spalti come spettatori. Un pubblico d’élite selezionato, ma anch’esso eterno. Come dei guardiani che vigilano sullo specchio d’acqua che ricopre il centro del cratere.

Purtroppo non si può più arrivare fino ai Moai, il percorso è stato chiuso e siamo costretti a vederli da lontano. Non si può nemmeno salire un po' più in alto per fare una panoramica migliore: come un soldato mimetizzato, spunta dai cespugli un guardiano che mi fischia un'ammonizione contro alzando il cartellino giallo.

"Alla prossima sei fuori!".

"Ma non l'ho nemmeno toccato!".

“Zitto o ti mando sotto la doccia!”.

“Il Moai si è buttato a terra da solo!”.

“Sì vabbè, adesso si sono abbattuti tutti da soli”.

I Moai mi guardano da lontano con quello sguardo severo di chi pensa: "Sappiamo cos'hai fatto".

A questo punto non provo nemmeno a contraddirli, con quell'espressione ultracentenaria di severità scolpita da secoli, non vorrei che cambiassero umore proprio ora...

Lentamente scendo le pareti del vulcano, rimango immerso in questo paradiso per un po’, quindi torno lentamente a valle come un tempo deve aver fatto la lava.

Rano Raraku mi ha davvero sorpreso. Assieme al villaggio Orongo è l'unico sito che si può visitare una sola volta con il biglietto, mentre agli altri è consentito tornare quante volte si vuole. Orongo non mi ha fatto sorgere la voglia di tornarci, questo luogo invece sì. È stato davvero fantastico camminare in questa Ikea di Rapa Nui.





Dopo la scorpacciata di statue pensavamo di aver visto tutto, ma non era così.

Non lontano da Rano Raraku c'è un altro vulcano, il Poike. Dovrebbe essere la nostra destinazione di domani, sempre che riusciamo a trovare una guida che ci accompagni lungo i ripidi ed esposti sentieri irti di scogli che lo circondano.

Sull'altra costa invece passiamo a Te Pito Kura, dove c'è il Moai più grande mai uscito dalla cava di Rano Raraku ed arrivato intero a destinazione. Era alto dieci metri circa e fu fatto erigere da una vedova per il marito scomparso.

Fu anche uno degli ultimi Moai ad essere abbattuto. La posizione in cui si trova e le dimensioni mi fanno inevitabilmente pensare alle scene finali del film...





Ma non è tutto: proprio lì accanto c'è l'ombelico del mondo!

Proprio così, avete capito bene. Qui c'è l'ombelico del mondo. Si tratta di pietre dalle proprietà energetiche. Non scherzo, sono veramente intrise di una forza energetica: sono magnetiche. Probabilmente venivano utilizzate per qualche antico rito ma tutte le ipotesi sono, come dire, ipotesi.





Tanto per rifare qualche foto, magari anche quella di gruppo, torniamo ad Anakena. La luce non è migliore di ieri, praticamente è lo stesso orario, ma la foto di gruppo stavolta ci scappa.

Ormai è tardi, così ci dirigiamo verso casa facendo una piccola deviazione sulla costa dall'altro lato di Hanga Roa. Lungo la strada c'è il sito di Puna Pao, ma sono già le 17.30, così passiamo oltre fino a incontrarne un altro: Ahu Akivi. Anche qui l'orario è tardo, ma ci fanno entrare comunque. Probabilmente è così fuori dall'itinerario classico che sono più permissivi.





Questi sette Moai rimessi in piedi sono particolari perché sono gli unici su un altare che guardano il mare e non l'interno dell'isola. Rappresentano i primi sette esploratori che arrivarono sull'isola. Forse guardano il mare per indicare che la loro casa è la fuori, in mezzo all'oceano. Considerando i tempi e l'impresa che compirono, erano praticamente l'equivalente degli astronauti odierni, solo polinesiani.

Riprendiamo la strada che ci dovrebbe portare sulla costa a vedere altri Moai tramite una strada sterrata. Purtroppo non troviamo niente, solo l'ingresso ad un altro sito, chiuso ovviamente.

Lungo la rotta verso casa attraversiamo un paesaggio ricco di verdi bocche di vulcani, alcuni alti, altri più bassi, in cui si intravedono dei boschetti nati proprio nel loro centro.

Lentamente ci perdiamo nelle campagne che diventano poco a poco più abitate, fino a spuntare alle spalle di Hanga Roa, proprio davanti alla chiesa.

Una giornata molto intensa sta finendo, ma domani ci aspettano le ultime cose da vedere, che non sono poi così poche.
Prima di partire pensavo che cinque giorni a Rapa Nui sarebbero stati troppi, ma devo ammettere che forse sono appena sufficienti.

martedì 30 ottobre 2018

Giorno 4 - Corsa col cane - Anakena – Tongariki, da fuori


Stamattina abbiamo un po’ di tempo libero perché la macchina che useremo per i prossimi tre giorni arriva a mezzogiorno. Tanto per non perdere tempo, lo sfrutto e vado a correre ancora.

Stavolta prendo la strada per Anakena, un sito dall’altra parte dell’isola, sempre nella più totale indifferenza di abitanti, turisti e cani. Sto correndo da circa mezz’ora quando, dopo una salita degna di nota, incontro un cane non troppo amichevole. In fondo lo sapevo che se c'era un solo cane stronzo sull’isola lo avrei incontrato prima o poi.

Stavo passando davanti ad una casa, situata a bordo strada, nel nulla della campagna, quando un cane inizia ad abbaiarmi e corrermi dietro. Fa niente, è dietro un recinto. Probabilmente è per quello che mi abbaia: rivendica il suo territorio e la sua libertà di parola. Da un certo punto di vista lo capisco anche, così mi trattengo dal fargli qualche gestaccio provocatorio.

A quasi quaranta minuti di corsa decido di tornare indietro ma, nei pressi della villa solitaria mi aspetta una sorpresa: proprio come un duellante del far west, sferzato dal vento che gli scompiglia il pelo, ritrovo il cane in mezzo alla strada. Mi fissa. Inutile sfidarlo. Torno indietro e faccio su e giù per un tratto finché non passa una macchina. Basta un cenno e questa si ferma, manco fosse un autobus dell'Atac. Non serve nemmeno chiedere un passaggio che il padrone del veicolo, prima ancora di aver fermato l’auto si sporge e mi apre la porta.

Nel mio spagnolo da turista, appena accennato dal viaggio in Perù e migliorato poi guardando la serie Narcos, cerco di spiegare che mi serve un passaggio breve, solo per metterla in quel posto al cane stronzo.

Lui capisce tutto.

-Italiano?

-Sì!

-Buona giornata! - Cerca di sorprendermi con un saluto perfetto. In effetti.

-Bravo! Jo soy Luca.

-Ricardo. - Si presenta allungandomi la mano.

Subito passiamo davanti al cane e glielo indico:

-Esto es el perro cavron! Me voleva matar!

Ricardo si mette a ridere e mima il cane che mi assale.

Ok ora posso scendere, anche perché su quella jeep c’è una puzza di benzina fortissima e Ricardo fuma e sparge cenere ovunque. Non vorrei saltare in aria passando dalla padella alla brace.

-Stop a chi! A chi esta bien. Por mi es ok.

-A chi?

Non ci crede. Ridendo pensa ad uno scherzo.

-Sì, sì a chi esta bien. Me voi ad alenarme por la maratona! Muchas gracias!

Ricardo si ferma e mi saluta mentre riparte lasciandomi in mezzo al nulla.

Più tardi, ripensandoci forse potevo essere più chiaro. Il mio spagnolo lascia molto a desiderare e non vorrei che abbia capito chissà cosa. Temo che dovrò guardare qualche altra serie in spagnolo. Coi sottotitoli.

Finisco la corsa e torno a casa dove Cassandra mi racconta dell'esperienza mistica appena vissuta. Essendo domenica c'era la messa, ma il prete non era proprio una classica figura cristiana: era mezzo prete e mezzo sciamano, con tutto il corredo di piume a decorare il suo abito. Inoltre nella chiesa, al posto del santo c'era la statua di un uomo con la testa di uccello e le ali. Una perfetta fusione della religione dell'uomo uccello con il cristianesimo. Ma non finisce qui: è prevista la costruzione di una nuova chiesa che invece della classica struttura avrà la forma di una tartaruga.

È arrivata la macchina.

Pier ha concluso il miglior autonoleggio che si possa fare: niente moduli da compilare, niente assicurazioni da stipulare: una stretta di mano con il proprietario del nostro ostello e via.

Probabilmente è la macchina di un suo parente, ma costa un terzo delle altre e ci stiamo tutti senza problemi.

Alpitour? Ahi ahi ahi!

Partiamo allora per Anakena, una delle uniche due spiagge di sabbia dell’isola.

Il viaggio è breve, l’isola non è grande, ma proprio nel centro ci ritroviamo immersi in una foresta di eucalipti. Ovviamente sono piante portate dall’occidente, ma dalle dimensioni di alcuni esemplari sembra che siano qui ormai da molto tempo.





Arriviamo alla spiaggia, circondata da un piccolo boschetto di palme a guardia di un soffice manto d’erba. In fondo si sente il rumore del mare, ma ancora non si vede. Una duna di sabbia corallina ne impedisce la vista. Inoltre accanto ad essa spiccano altri Moai, forse i meglio conservati dell’isola.

Sono sette, di cui quattro col cappello, che poi voleva rappresentare la capigliatura, non un copricapo. Cinque di essi sono interi, gli ultimi due non hanno la testa.

Ce ne è un altro, solitario, poco più in là. È solo ma sta più in alto degli altri e sembra che guardi a vista questi guardiani.

Anakena per gli antichi abitanti era un luogo sacro perché fu qui che sbarcò il primo re quando migrò a Rapa Nui dalla Polinesia.





La leggenda dice che alla morte del re polinesiano, i due figli si contesero il trono. Lo sconfitto, Hotu Matu'a, dovette andarsene. Per mezzo di grandi catamarani che potevano portare anche cento persone, viveri e i bulbi di piante da trapiantare, giunsero sin qui, colonizzando l’isola.

Dopo aver ricevuto energia spirituale sufficiente anche da questi magnifici Moai, mangiamo sotto il boschetto di palme e poi andiamo in spiaggia. Purtroppo c’è un bel vento e nonostante il sole, fa quasi frescolino. Tanto per provare mi tolgo le scarpe e vado a saggiare la temperatura dell’acqua: il costume ce l’ho. Siamo all’isola di Pasqua, vuoi non mi faccio il bagno?

L’acqua è fredda, non mi faccio il bagno.

M’ha ciapa’ per un tedesco?

Rimaniamo a goderci la spiaggia per un po’, forse troppo, perché quando ce ne andiamo verso il prossimo sito, Te Pito Kura, lo troviamo chiuso. Sono le 17:30 e ci dicono che tutti i siti archeologici da visitare chiudono a quest’ora.

Un po’ sconsolati ce ne andiamo, prendendo però la strada della costa. Passiamo accanto al vulcano Poike, che si potrebbe anche scalare con un bel trekking, e ci ritroviamo davanti a loro: i Moai di Tongariki. Inevitabilmente fermiamo la macchina ed inizia la strage fotografica.

Anche se siamo lontani e fuori del recinto del sito, si vedono benissimo, anche perché grandissimi e baciati dal sole pomeridiano.

Sono ben 15 e a vederli così sono incredibili. Forse i più famosi Moai di tutta l'isola. Vennero rimessi in piedi negli anni sessanta da un'equipe di giapponesi.

Che dire, già prima adoravo il Giappone, ora proprio mi viene da idolatrarlo come entità spirituale.





L’effetto che hanno ottenuto è davvero incredibile. Mi rendo conto che cercare di descrivere a parole la visione di alcune semplici statue, molto simili tra loro, non rende giustizia e forse nemmeno l’idea, ma posso assicurare che queste hanno qualcosa di speciale. Forse il mana degli antenati risiede davvero dentro di essi perché guardandole mi sento allo stesso tempo elettrizzato e sereno. Sto osservando dal vivo i Moai. Me lo devo ripetere ogni tanto per ricordarmi che non siamo di fronte ad un film o un documentario.


Percorriamo a piedi tutto l’immenso recinto e ogni tanto Pier è costretto a spostare la macchina.

Arriviamo fino all’ingresso e ci assiepiamo come zombie dagherrotipi al cancello, innescando la curiosità del guardiano, un locale “attrezzo” da competizione, a giudicare dalle cicatrici, la lunga barba, capelli intrecciati fino al fondo schiena, i pochi denti e l’aria affannata. Per tranquillizzare la nostra frenesia ci dice che questo è l’unico sito che apre presto, alle 7 del mattino, così da poter vedere l’alba attraverso i Moai.
Domani tocca alzarci presto.

lunedì 29 ottobre 2018

Giorno 3 - Grotte - Ranu Kay - Orongo - Corsetta serale



Questa mattina volevo correre. Purtroppo non avevo fatto i conti con i galli dell’isola: alle cinque del mattino hanno iniziato a cantare. Prima uno, poi tutti assieme. Una sinfonia che neanche il coro finale dell’inno alla gioia... Tutti stonati però.
Alle sette guardo fuori e c’è un buio pesto. Considerando che non conosco ancora l’isola e soprattutto come reagirebbero i suoi cani alla mattina presto vedendo un runner solitario, desisto. Ci proverò stasera con più calma.
Ora però c’è il trekking al vulcano.
Dopo colazione mettiamo lo zaino in spalla e iniziamo a camminare rifacendo la strada per l’aeroporto. L’isola è piccola, più piccola dell'Elba. In tutto ci vivono 7000 abitanti e senza comprare il biglietto che si fa in aeroporto, o all’ufficio turistico nel centro di Hanga Roa, ci si può muovere liberamente, ma senza entrare nei siti archeologici.
Per fortuna Pier ha già fatto tutto in aeroporto.
Il vulcano è vicino, basta girare attorno alla pista di atterraggio dell’aeroporto e si comincia la salita.
Ci godiamo la prima passeggiata mattutina osservando le varie specie di fiori e piante dalle forme e colori particolari. Tutti gli alberi però non sono endemici. Furono portati dalle varie spedizioni occidentali che iniziarono a visitare l’isola da quel giorno lontano di Pasqua del 1722. Come molti sapranno infatti tutti gli alberi locali furono tagliati dagli abitanti, forse per trasportare i grandi Moai, ma più probabilmente per la costruzione delle loro canoe.
Una su tutte le piante che vediamo mi colpisce, più che altro per la mia golosità: la palta, ovvero l’avocado. Sicuramente è importata.
Attraversiamo tutta la città, che non è più grande del mio paesino d’origine: l’Oca di Trevi. Anzi è decisamente più piccola.
Dopo esserci lasciati alle spalle la città e l’aeroporto, arriviamo al primo scorcio di mare dove si può scendere la scogliera nera, rossa e bianca, fino ad una piccola grotta dove si vedono ancora dei murales dipinti sulle pareti superiori: l’uomo uccello. Riconosco subito questo posto che è stato usato in alcune scene del film.
In seguito scopriremo che questo era anche uno dei luoghi in cui gli abitanti si rifugiarono durante la guerra per le risorse. Purtroppo venne utilizzata anche come teatro per banchetti cannibali.
Rimaniamo per un po’ imbambolati a guardare le grandi onde che si infrangono sulle rocce laviche dell’isola. Sono molto alte e sembra quasi che esprimano disappunto quando vanno a sbattere: hanno viaggio per 4000 chilometri e proprio qui hanno dovuto terminare la loro corsa. Ora dovranno tornare indietro e ricominciare tutto da capo, tra gli spernacchiamenti delle loro sorelle che hanno avuto la fortuna di schivare questo triangolino di roccia.
Quando il sortilegio marino allenta la presa su di noi, riprendiamo la strada abbandonando l’asfalto per imboccare un sentiero. È quasi lo stesso sacro cammino che i clan facevano ad inizio primavera per salire al sacro villaggio dove avrebbero trascorso il tempo che li separava dal giorno della gara dell’uomo uccello.
Tra alberi strani e fiori colorati e frutti mai visti, saliamo i trecento metri di dislivello che ci separano dalla vetta. Con calma e qualche foto, giungiamo alla famosa bocca del vulcano Ranu Kai, anche questo usato nel film proprio in occasione della gara. È uguale a come lo ricordavo, anzi probabilmente è meglio.


Il centro è un acquitrino frammentato da centinaia di isolette di vegetazione. L’effetto del cielo blu che si riflette a macchie verdi sull’acqua è davvero fantastico.

Un’altra cosa di cui temevo di rimanere deluso ha avuto l’effetto contrario. Quest’isola è incredibile nella sua semplicità.
Continuiamo la salita e il sentiero passa attraverso dei cespugli con dei baccelli marroni. Quando il vento li fa muovere, le minuscole sfere che contengono, producono un suono particolare come fossero piccolissime maracas, tanto che Cassandra si mette ad agitarne diversi ballando una samba immaginaria.

Se non sbaglio durante il film si sentiva questo suono. Pensavo fosse un effetto aggiunto, e invece no! Sono piante vere!!!
Verso l’una siamo finalmente in cima, dove persiste ancora il villaggio sacro di Orongo.
Da qui partiva la gara dell’uomo uccello in cui i concorrenti dovevano scendere le pareti del vulcano, nuotare in mezzo agli squali fino all’isolotto di fronte, rubare un uovo degli uccelli che vi nidificano e tornare indietro. Praticamente hanno inventato l'Iron Man. La gara veniva svolta a inizio primavera proprio perché è in quel periodo che l’uccello marino arrivava a Rapa Nui.
Gli atleti si legavano una fascetta in fronte per poter trasportare l’uovo e nuotare liberamente, quindi scalare il vulcano fino al villaggio. Una volta preso l’uovo potevano anche impedire agli altri di vincere rompendo il loro o, se lo avevano rotto, rubandolo a qualcuno.
Il primo che arrivava decretava la vittoria del proprio clan, insignendo il capo clan del titolo di Ariki mau, capo politico e religioso dell’isola.
Pare che questa gara assolse il compito di mettere fine alle guerre per le scarse risorse del luogo, oltre che soppiantare il culto dei Moai con quello dell'uomo uccello.
Il villaggio è stato restaurato, ma nelle piccole case non si può entrare, per fortuna. L’ingresso è così piccolo e basso che rischierei il colpo della strega.
Pian piano scendiamo dalla strada dell’andata e verso sera siamo a casa. Giusto il tempo di togliermi le scarpe da trekking e cambiarmi, quindi uscire a correre, finalmente.
Rifaccio la strada dell’aeroporto, ma dall’altra parte. Anche qui ci sono cani che spuntano ovunque, ma non sono interessati a me. Quest’isola mi piace sempre di più.

Quasi al tramonto mi ritrovo al cospetto dei cinque Moai, dove finisco l'allenamento sotto lo sguardo severo di questi guardiani, quasi mi volessero dire: “Tutto qui quello che sai fare?”.