Arriviamo a Tongariki verso le 7:30, con Pier che ha
guidato sulla costa buia, con le sole luci delle auto che ci hanno preceduto a
farci da guida.
Quando sbarchiamo c’è già un po’ di gente, ma è ancora
buio e il vento soffia su di noi abbassando ancora di più la temperatura
mattutina. Anche se ormai qui è primavera, il clima oggi è piuttosto rigido.
Io e Cassandra ci mettiamo in fondo, tanto non si vede
nulla. Pier va un po’ più avanti e anche Giuliana lo segue, pur rimanendo a una
certa distanza.
Come nelle migliori tradizioni del “io so io e voi non
siete un Moai”, c’è poi un italiano che si mette in mezzo, davanti a tutti.
Scattando un migliaio di selfie con la sua ragazza di lingua ispanica,
impallano tutti i cacciatori di albe che ormai sono cresciuti di numero.
Intanto la luce inizia a rischiarare l’ambiente e a far salire la tensione.
Anche prendendolo a male parole, in chiaro italiano per
farsi capire, che comprende benissimo, non accenna a spostarsi finché la miccia
non prende fuoco. Grazie a lui il processo irreversibile del “se lo fa lui, lo
famo pure noi” contagia come un'epidemia anche gli altri astanti di ogni
nazionalità fino a quel momento immuni: americani, cileni, brasiliani, cinesi,
coreani. Poco alla volta tutti avanzano per accaparrarsi qualche metro in più
sotto la fila dei Moai.
Mi sembra di vedere “Pappa e Ciccia”, il film con Paolo
Villaggio in cui un gruppo di turisti deve raggiungere l'aereo sulla pista e un
alpino li redarguisce dicendo “Non stemo a far la solita corsa vergognosa per i
posti al finestrino! Comportemose ben!”.
Ovviamente tutti hanno corso per prendersi il posto
migliore.
Il vento si intensifica e le nuvole coprono tutto il
cielo, orizzonte compreso. Come se i grandi Mamozi fossero contrariati dal
nostro comportamento ai loro piedi. E hanno ragione: invece di litigare
dovremmo solo adorarli. Gli dei non sono mica scemi, ci hanno fatto il dispetto
di spegnere la luce. Così l’alba passa e nessuno se ne accorge.
L’ira degli dei è implacabile.
Comunque anche così, vedendoli da vicino sono
meravigliosi. Sono sempre più felice di essere venuto fin qui assieme a
Cassandra. Anche oggi, come ieri, ogni volta che la guardo la trovo imbambolata
e assorta da queste figure gigantesche, manco fossero delle opere di
Caravaggio, o dei vestiti in super saldo. Ora che ci penso alcune potrebbero
essere contemporanee a quelle dell’artista milanese che è vissuto tra la fine
del 1500 e l’inizio del 1600. Pare che abbiano smesso di fare i Moai qualche
secolo prima della scoperta dell’isola, quindi non sono proprio contemporanei a
Caravaggio.
Comunque loro sono ancora lì, come una immaginaria squadra
di calcio dei mondiali che attende l’inizio dell’inno nazionale. Visti così
sembrano ancora più veri.
Ci giriamo attorno per vedere anche il mare, in questo
punto spettacolarmente scenografico. Per continuare i paragoni calcistici,
visti da dietro ci sentiamo tutti il portiere che osserva la barriera su un
calcio di punizione.
Ora che il grosso della gente se ne è andata, esploro il
sito con calma e, poco prima di ripartire, mi faccio un selfie con un altro
piccolo Moai, il quale sfoggia un singolare pizzetto. Trovo che ci somigliamo
molto.
Accanto all’uscita ci sono anche altri resti di statue e
i loro cappelli. Sono mastodontici.
Torniamo a casa per fare colazione, quindi riprendiamo il
nostro compito di esploratori.
Rifacciamo la stessa strada di questa mattina, ma
stavolta con la luce del giorno.
Lungo la costa ci sono diversi siti da visitare. Il primo
ha delle ricostruzioni delle capanne e case dove vivevano gli antichi abitanti.
Ci sono anche altri altari, dove però i Moai sono a terra, alcuni ancora interi
e con il volto rivolto verso il basso, altri invece giacciono in pezzi, con il
Pukao rotolato lontano da loro.
Moai caduti. Sono stati lasciati così per ricordare
quando vennero abbattuti. Uno spettacolo comunque affascinante che mi ha fatto
pensare ai ruderi in generale. Sembra quasi che l’uomo ami così tanto i ruderi
da crearli di proposito. Siamo così masochisti? Quasi volessimo distruggere il
nostro passato e presente per poter un giorno sognare, solo guardando questi
resti, immaginando quanto potessero essere belli un tempo e chiedendoci per
quale vero motivo abbiamo osato disfare una cosa così magnifica. Un gatto che
si morde la coda.
Inevitabilmente mi sorge un altro pensiero inquietante:
probabilmente un giorno, oltre a questo, anche le nostre discariche
diventeranno dei siti archeologici importantissimi, ricchi di ogni tipo di
informazioni, magari anche più dettagliate di quelle che presumiamo di sapere
sulla nostra società... Si tratta pur sempre di archeologia eh, anche se dal
nostro attuale punto di vista in senso inverso.
Da qui passiamo ad un altro sito con i Moai caduti.
Questo accadde poco a poco in tutta l’isola quando le risorse iniziarono a
scarseggiare e il culto degli antenati venne progressivamente soppiantato da
quello dell’uomo uccello. Durante la guerra per le poche risorse disponibili i
Moai vennero abbattuti dai clan nemici che volevano così togliere il mana ai
loro avversari per indebolirli.
Verso l’ora di pranzo arriva il piatto forte della
giornata.
Il vulcano Rano Raraku.
Praticamente un negozione di Moai.
Esposti sulle pendici del vulcano, le statue modello
facevano bella mostra di sé in modo da poter essere scelte quando gli antichi
venivano a vedere cosa potevano ispirarli per erigere una statua ai propri
antenati.
Per la maggior parte delle statue, dal terreno sporge
solo la testa e poco altro, ma sotto sono dei Moai interi. Il tempo e
l'erosione del vulcano li ha ricoperti in parte o completamente, producendo
però un effetto meraviglioso.
Ce ne sono di modelli e forme che non ho mai visto
sull'isola. Anche le dimensioni sono insolite. Il più singolare è quello dalla
testa insolitamente tonda e inginocchiato sulle gambe. C'è poi il più grande,
ancora ancorato al vulcano. Circa ventuno metri d'altezza. È rimasto lì, solo come
modello, quasi a voler avvertire i clienti: “Noi se vuoi te lo facciamo, poi
però per portarlo a casa intero sono cavoli tuoi.”
Essendo dei modelli, quindi non terminati, nessuno aveva
gli occhi. Queste statue sono tutte rivolte verso il mare, ad eccezione di
quelle che non sono cadute o troppo inclinate per vederlo.
Queste statue ricordano degli spettatori di un’arena,
rivolti però verso il mare, ad ammirarne il blu intenso che diventa azzurro e
poi bianco nelle onde. Ipnotizzati eternamente da questo spettacolo, non si
sono ancora stancati di ammirarlo, anche perché probabilmente non c’è mai
un'onda identica all’altra. Evidentemente non si vogliono perdere niente dello
spettacolo eterno.
Facciamo il giro del vulcano sotto un sole abbagliante e
sferzati da un vento fortissimo.
Una domanda ci sorge spontanea: ma la pietra per i
copricapi, da dove la prendevano? Qui non vediamo nessun Pukao, per cui quasi
certamente non arrivavano da qui.
Terminato il giro, ritorniamo all'ingresso, dove
all'inizio della visita avevo notato una biforcazione del sentiero. Vuoi vedere
che troviamo il sito da cui estraevano la pietra vulcanica rossa per i Pukao?
Seguendo la strada saliamo lentamente verso una piccola
gola che sbuca proprio all'interno del vulcano.
Un'altra meraviglia nascosta, poco segnalata, ma che
merita moltissimo.
L’interno del vulcano è un altro anfiteatro, con alcuni
Moai accomodati sugli spalti come spettatori. Un pubblico d’élite selezionato,
ma anch’esso eterno. Come dei guardiani che vigilano sullo specchio d’acqua che
ricopre il centro del cratere.
Purtroppo non si può più arrivare fino ai Moai, il
percorso è stato chiuso e siamo costretti a vederli da lontano. Non si può
nemmeno salire un po' più in alto per fare una panoramica migliore: come un soldato
mimetizzato, spunta dai cespugli un guardiano che mi fischia un'ammonizione
contro alzando il cartellino giallo.
"Alla prossima sei fuori!".
"Ma non l'ho nemmeno toccato!".
“Zitto o ti mando sotto la doccia!”.
“Il Moai si è buttato a terra da solo!”.
“Sì vabbè, adesso si sono abbattuti tutti da soli”.
I Moai mi guardano da lontano con quello sguardo severo
di chi pensa: "Sappiamo cos'hai fatto".
A questo punto non provo nemmeno a contraddirli, con
quell'espressione ultracentenaria di severità scolpita da secoli, non vorrei
che cambiassero umore proprio ora...
Lentamente scendo le pareti del vulcano, rimango immerso
in questo paradiso per un po’, quindi torno lentamente a valle come un tempo
deve aver fatto la lava.
Rano Raraku mi ha davvero sorpreso. Assieme al villaggio
Orongo è l'unico sito che si può visitare una sola volta con il biglietto,
mentre agli altri è consentito tornare quante volte si vuole. Orongo non mi ha
fatto sorgere la voglia di tornarci, questo luogo invece sì. È stato davvero
fantastico camminare in questa Ikea di Rapa Nui.
Dopo la scorpacciata di statue pensavamo di aver visto
tutto, ma non era così.
Non lontano da Rano Raraku c'è un altro vulcano, il
Poike. Dovrebbe essere la nostra destinazione di domani, sempre che riusciamo a
trovare una guida che ci accompagni lungo i ripidi ed esposti sentieri irti di
scogli che lo circondano.
Sull'altra costa invece passiamo a Te Pito Kura, dove c'è
il Moai più grande mai uscito dalla cava di Rano Raraku ed arrivato intero a
destinazione. Era alto dieci metri circa e fu fatto erigere da una vedova per
il marito scomparso.
Fu anche uno degli ultimi Moai ad essere abbattuto. La
posizione in cui si trova e le dimensioni mi fanno inevitabilmente pensare alle
scene finali del film...
Ma non è tutto: proprio lì accanto c'è l'ombelico del
mondo!
Proprio così, avete capito bene. Qui c'è l'ombelico del
mondo. Si tratta di pietre dalle proprietà energetiche. Non scherzo, sono
veramente intrise di una forza energetica: sono magnetiche. Probabilmente
venivano utilizzate per qualche antico rito ma tutte le ipotesi sono, come
dire, ipotesi.
Tanto per rifare qualche foto, magari anche quella di
gruppo, torniamo ad Anakena. La luce non è migliore di ieri, praticamente è lo
stesso orario, ma la foto di gruppo stavolta ci scappa.
Ormai è tardi, così ci dirigiamo verso casa facendo una
piccola deviazione sulla costa dall'altro lato di Hanga Roa. Lungo la strada
c'è il sito di Puna Pao, ma sono già le 17.30, così passiamo oltre fino a
incontrarne un altro: Ahu Akivi. Anche qui l'orario è tardo, ma ci fanno
entrare comunque. Probabilmente è così fuori dall'itinerario classico che sono
più permissivi.
Questi sette Moai rimessi in piedi sono particolari
perché sono gli unici su un altare che guardano il mare e non l'interno
dell'isola. Rappresentano i primi sette esploratori che arrivarono sull'isola.
Forse guardano il mare per indicare che la loro casa è la fuori, in mezzo
all'oceano. Considerando i tempi e l'impresa che compirono, erano praticamente
l'equivalente degli astronauti odierni, solo polinesiani.
Riprendiamo la strada che ci dovrebbe portare sulla costa
a vedere altri Moai tramite una strada sterrata. Purtroppo non troviamo niente,
solo l'ingresso ad un altro sito, chiuso ovviamente.
Lungo la rotta verso casa attraversiamo un paesaggio
ricco di verdi bocche di vulcani, alcuni alti, altri più bassi, in cui si
intravedono dei boschetti nati proprio nel loro centro.
Lentamente ci perdiamo nelle campagne che diventano poco
a poco più abitate, fino a spuntare alle spalle di Hanga Roa, proprio davanti
alla chiesa.
Una giornata molto intensa sta finendo, ma domani ci
aspettano le ultime cose da vedere, che non sono poi così poche.
Prima di
partire pensavo che cinque giorni a Rapa Nui sarebbero stati troppi, ma devo
ammettere che forse sono appena sufficienti.