martedì 29 novembre 2016

Firenze Marathon 2016



Ci siamo, il giorno è arrivato. Dopo la nottata in bianco di venerdì e la visita agli uffizi di sabato, sono arrivato alla sera prima della gara in condizioni precarie, praticamente senza energie.

Fortunatamente questa mattina mi sono svegliato scoprendo di essere riuscito a dormire come mai prima di una maratona.

Alla partenza riesco pure ad entrare nella griglia precedente la mia, roba mai successa prima. Assieme agli altri runner romani ci mettiamo in fila ad aspettare. Fa freschino eh, ma credo di essermi coperto abbastanza. Giusto il tempo di un un pochino di stretching, un selfie e quattro stupidate su WhatsApp e si parte!

La città di Firenze è proprio bella, come dice Cassandra è la seconda più bella del mondo, dopo Roma ovviamente. È bella anche perché quando ci fai la maratona trovi sempre un sacco di gente che ti incita su quasi tutti i quarantadue chilometri, ti accompagna con le sue dieci band che suonano dal vivo, e poi ti permette attraversare un contesto storico artistico spettacolare, diverso da Roma, ma comunque fantastico.

Al quinto chilometro mi risveglio da questa beatitudine che mi ha trasportato fin li: già sento caldo. Inizio a pensare di aver toppato completamente l'abbigliamento. Magari potrei togliermi gli strati superflui da lasciare a Cassandra e ai miei genitori che mi stanno pazientemente aspettano lungo il percorso.

Per fortuna le nuvole e il venticello mi vengono in soccorso e così non ce ne sarà bisogno. Per fortuna, proprio. Nonostante avessi studiato un piano dettagliato degno dell'A-Team per indicare i punti del tracciato e gli orari in cui ci sarei passato, qualcosa è andato storto. Non avevo considerato la natura profetica di Cassandra, ma soprattutto il suo senso dell'orientamento.

Dopo il primo e il secondo appuntamento mancato ho capito che gli dei avevano sviato Cassandra dalla retta via con false profezie del tipo:

“Verrà investito da un cavallo imbizzarrito, stai vicino ad un ospedale”

“Arriverà prima degli etiopi, stai vicino al traguardo”

“Si perderà nel parco delle cascine, è inutile cercarlo”

Insomma, un po' sconsolato, ma ancora in forze mi dirigo verso il 25 esimo chilometro. Quando però entro nello stadio di atletica inizio a sentire le gambe un po' pesanti. Non è un buon segno.

Al 34esimo imbocco uno stradone ampio del tutto differente dalle viette del centro dove abbiamo corso fin'ora. La canzone degli AC DC Highway to hell, autostrada per l'inferno, mi annuncia che stiamo per imboccare il temutissimo cavalcavia.

Un vero e proprio muro verticale da scalare! Non lo ricordavo così ripido...  Così come la discesa, che non riesco a contenere e devo urlare alla gente di spostarsi per non investirli.

Dalla discesa verso gli inferi inizia il mio calvario, a ben otto chilometri dal traguardo. Decido di abbassare il ritmo, per vedere come va, ma più di tanto non riesco: le mie gambe vanno da sole e io non ho nessuna intenzione di fermarle.

Un chilometro dopo l'altro avanzo dolorante, giungendo ancora in centro dove mi aspetta un infido lastricato che mi fa sentire ancora di più il peso della distanza. Anche l'orologio non vede l'ora che sia finita e quando arrivo al trentanovesimo chilometro cerca di convincermi che siamo già a 40.

Ecco il ponte vecchio.

Ogni volta che studiavo il percorso della gara lo avevo immaginato come un piccolo anticipo del premio che mi attendeva al traguardo. Probabilmente corrervi con delle gambe sane me lo avrebbe fatto apprezzare di più.

Ripasso l'Arno per l'ultima volta, ma questa volta il motore so spegne. A due soli chilometri dal traguardo le gambe si fermano, si bloccano, non ne vogliono più sapere. Posso solo camminare.

Sento la gente che mi passa e con cui ho corso fin'ora. Alcuni mi incitano a non mollare, altri mi urlano dietro. Una ragazza con la maglietta che sembra una bandiera della Gran Bretagna mi da un buffetto sulla spalla e mi dice:

“Bravo, dai! “

Se ne va anche lei.

Solo quando sento la truppa dei “Mamma aiuto”, i pacemaker delle quattro ore, sorpassarmi allegramente, il mio motore sussulta come quello di una vecchia 500 e riparte scoppiettante.

Li riprendo, li supero e quasi me ne vado, poi la benzina inizia a scarseggiare un'altra volta ed io a ondeggiare per raccogliere gli ultimi residui dal serbatoio.

Annebbiato dal dolore alle gambe mi aggrego ai palloncini delle quattro ore, sperando di riuscire a mantenermi sotto il muro anche solo di un secondo.

Uno dei portatori di palloncini esulta:

“Grandi! Siamo al km 41 e non abbiamo ancora perso nessuno per strada!”

Ha parlato troppo presto.

Prima un crampo, fuori uno, poi un cedimento, fuori due, poi un rallentamento, fuori tre. Uno a uno i runner che speravano di farsi trascinare al traguardo cedono lungo la strada.

Per non essere colpito dalla sfiga che si sta abbattendo sui runner che si aggregano ai palloncini, faccio finta di essere sfinito e mi faccio lasciare indietro di una ventina di metri. Sono talmente bravo a dipingere lo sfinimento sul volto che tutti cascano nella mia recita.

Eccolo finalmente, dopo un paio di curvoni, si apre davanti a me il rettilineo finale: siamo in piazza della signoria e la in fondo c'è il duomo.

La pista si stringe e il pubblico cresce, si infiamma.

Il tifo indiavolato è così forte che mi colpisce come una scarica di vento che mi alza da terra e, trasformandomi in un piccolo Mercurio, inizio a far sbattere le ali del mio cappellino e a volare verso il traguardo. Carico dell'energia del tifo recupero i palloncini, li semino, supero un centinaio di persone e inizio a sorridere, forte di una magia che solo la maratona riesce a trasmettere.

Prima dell'ultima curva poi vedo mio padre, finalmente! Allora è venuto davvero a Firenze! Giro l'angolo ed ecco Cassandra che appena mi vede inizia a saltare e a incitarmi manco fossi Filippide che sta per schiattare a pochi metri dal traguardo.Dietro, piccolina, c'era mia madre, infreddolita ma presente.

Mancano venti metri, giusto il tempo di superare altre persone, tra cui la ragazza inglese, poi l'arrivo.

Come sempre mi piego, sputando sudore e le tanto meritate lacrime, di gioia, irrefrenabile gioia. 3:56 minuti, finalmente sono sceso sotto il muro che mi ha tenuto a bada per tanto tempo. 
Ora posso ringraziare Cassandra per la pazienza, che da quando sono a Roma non ha mai smesso di spronarmi a non mollare, spingendomi a correre e rincorrere questo traguardo. Ringrazio Stefano il massaggiatore che mi ha fatto capire quanto siano importanti il potenziamento e le ripetute, e mi ha fatto abbandonare, finalmente, la tabella "io speriamo che me la cavo". 
Grazie agli amici che mi hanno accompagnato nei lunghissimi, facendo i turni per farmi arrivare a 36 chilometri senza mai farmi correre da solo. 
Infine grazie anche al pastore maremmano, che dopo avermi azzannato, ha capito subito che ero destinato a correre un'altra maratona, lasciandomi solo un simpatico tatuaggio, a testimonianza dei 4 punti di sutura.




Nessun commento:

Posta un commento