mercoledì 23 marzo 2016

SAN PAOLO ALLA REGOLA

Oggi intraprendiamo un viaggio alla scoperta di quella che era l'antica Roma, scomparsa, ma ancora presente nelle abitazioni moderne. Un viaggio all'interno di uno dei tanti palazzi che al suo interno nasconde più duemila di storia, di vita, di ristrutturazioni e di trasformazioni.
Ci troviamo sotto palazzo Specchi, a due passi dal teatro Marcello e dall'Ara coeli, ove ancora resistono i resti di un complesso della Roma imperiale chiamato Insulae. Come già detto in più occasioni, le Insulae erano dei palazzoni che avevano al pian terreno degli esercizi commerciali e, salendo fino a cinque o sei piani in altezza, contenevano gli appartamenti dei privati cittadini. All'epoca questa era una zona importante detta campo marzio. Nel periodo di Agrippa, ci viene costruito un primo Pantheon, più piccolo di quello di Adriano, e un grande impianto termale che arriva fino alla zona di largo Argentina. E in questo periodo che il campo marzio, fino ad allora usato dai militari per le esercitazioni, inizia a cambiare: vengono costruiti vari edifici, Augusto fa costruire l'orologio solare, il proprio Mausoleo, l'altare della pace, e poi, essendo vicina al Tevere, diventa importante commercialmente e quindi vi fioriscono i magazzini.

Scendiamo le scale del palazzo per ritrovarci proprio in uno di questi magazzini, detti horrea. Questi erano adibiti alla conservazione di grano, frumento e cereali. Gli horrea erano fatti a rastrelliera, una serie di ambienti uno parallelo all'altro e non comunicanti tra loro. Il livello più basso in cui siamo scesi, quello dei primi horrea risale ai tempi di Vespasiano e Domiziano.
Nel secolo successivo alla costruzione degli horrea, la zona si sviluppa commercialmente e nascono templi e altri horrea, che continuano a funzionare come magazzini.
Col passare degli anni, la zona si sviluppa sempre più e questi magazzini vengono inglobati in un Insulae. Questa in particolare si chiama di San Paolo alla regola perché si pensa che vi abbia vissuto per qualche tempo l'apostolo Paolo, che si dice vivesse in un luogo di magazzini e si occupasse di conciare le pelli, attività di cui si sono trovate molte tracce.
Saliamo nel secondo vano usato in epoca successiva come livello più basso dei magazzini e confinante con il cortile dell'insulae. Nel retro bottega del magazzino si intravedono delle lastre a terra che facevano parte della pavimentazione del cortile, poi si scorge una porta che era l'ingresso all'insulae, mentre poco più sopra, anche la finestra del primo piano. Anche questa insulae nei secoli successivi sparisce e tutte queste aperture vengono chiuse per poter costruirvi sopra. Col passare del tempo infatti, intorno al quarto secolo, il primo livello dei magazzini scompare a causa delle inondazioni del Tevere che li seppellisce e sopra questa insulae, viene costruita una chiesa dal nome San Paolo alla regola.
Siamo solo all'inizio del viaggio così spostandoci in un altro ambiente, intravediamo degli affreschi sulle pareti e mosaici ancora ben conservati a terra. Va da sé che queste stanze probabilmente furono utilizzate per diventare qualcosa di ben più accogliente rispetto agli horrea. Forse erano ambienti di rappresentanza, oppure uffici legati all'attività commerciale dei magazzini.
Già in queste stanze sono bene visibili i segni lasciati dalle diverse vite che la struttura ha vissuto nei secoli per arrivare fino a noi: ci sono tracce di un'altra piattabanda, aperture richiuse e tamponate. Si scorgono anche rivestimenti sui muri in tufo e mattoncini, tipici dell'epoca medievale.
Anche se non era un palazzo imperiale, la sua storia è stata molto ricca: sembra che in questa stanza sia stata trasformata in una fullonica, ovvero una lavanderia, ma vi sono stati recuperati anche tantissimi reperti di ceramica, mentre salendo un pochino nei livelli di scavo, sono emersi moltissimi denti e ossa di maiale. Probabilmente dovuti al nuovo cambiamento di pelle, questa volta una macelleria.

Nel medio evo, intorno al 1200, viene interrato tutto e sopra viene costruita la casa torretta, che in seguito verrà inglobata nel palazzo seicentesco che possiamo ancora vedere all'esterno, diviso poi negli attuali appartamenti di epoca moderna.
Anche se a raccontarla così potrebbe volerci parecchia immaginazione, i segni delle trasformazioni edilizi di questi ultimi duemila anni sono ancora ben visibili, ma il bello è provare ad immaginare a cosa la aspetta per il futuro.

lunedì 21 marzo 2016

Il mausoleo di Cecilia Metella

Poco più avanti sull'Appia si trova il complesso del mausoleo di Cecilia Metella. Questo, oltre a mausoleo, nel tempo è stato anche un importante castrum, una fortezza medievale.
Intorno al 1300 infatti venne eretto un fortino nel mausoleo dalla famiglia dei Caetani, che già un secolo prima ebbero un papa in famiglia e che poi saliranno al potere nuovamente con Papa Bonificio VIII.
Prima di allora, e dopo la fine dell'impero, l'Appia era diventata meta di pellegrinaggio, soprattutto alle catacombe di san Sebastiano. L'archeologa ci racconta che il nome catacombe in realtà deriva dalla cava a fianco di san Sebastiano che ne prese la definizione. Catacumbas infatti significa "sotto la roccia". Di riflesso tutte le altre sepolture sotterranee a cunicoli furono chiamate catacombe.
Altra nota interessante è che non furono inventate per i cristiani, ma già in epoca pagana, a causa del sovraffollamento, si scavavano cunicoli per seppellire i morti. Ancora oggi esistono anche delle catacombe ebraiche.
I pellegrinaggi nacquero perché nelle catacombe c'erano i resti dei martiri, presso cui la gente veniva a pregare.
Questo fino al 700/800 dc, quando i papi iniziarono a portare i resti dei martiri nelle chiese di Roma, di conseguenza l'Appia perse gran parte della sua importanza. Da allora veniva usata solo per coltivare i terreni che attraversava con delle vigne, oppure solo per recuperare il materiale pregiato usato nella costruzione delle tombe. A volte bruciavano perfino il marmo per farne della calce. 
E poi erano gli altri i barbari.
Solo intorno al 1000 alcuni personaggi importanti iniziano ad acquistare parti dell'Appia a scopi difensivi. Sfruttando le strutture di epoca romana, vennero costruite delle fortezze, i cosiddetti castrum.
Prima dei Caetani, il mausoleo era già stato trasformato nel castrum dei conti di Tuscolo. Scomparsi questi i Caetani ne fanno un vero e proprio castello. Oggi manca tutta la copertura e i due piani intermedi, ma se ne vedono ancora bene le tracce.
Oltre ad essere una fortezza, la costruzione fungeva anche da palazzo ed era fornito di tutti i confort dell'epoca.
Il castrum fu costruito in tufo, in parte perché più facile da reperire e poi perché le grandi fornaci che producevano i laterizi erano sempre di meno e quindi il mattone diventava troppo costoso. Alcune parti della fortezza erano in marmo, ma solo gli arricchimenti che si andavano a unire all'intonaco che ricopriva tutte le pareti.
La grande struttura circolare del mausoleo invece venne riutilizzata come torre di avvistamento. Questa fu quasi la sua fortuna, perché riutilizzando la tomba non venne cannibalizzata ed è giunta fino a noi.
Nei secoli successivi la proprietà Caetani venne rivenduta e frazionata in diversi proprietari. Infatti oltre al castrum c'erano altre strutture come case e una chiesa, utilizzate da chi lavorava per la famiglia Caetani. Tutto era circondato da una cerchia di mura difensive con due archi per entrare e uscire sull'Appia. Una vera e propria roccaforte con un villaggio al suo interno.
Per entrare e per uscire si doveva pagare una gabella molto salata, e il castrum Caetani non era l'unica fortezza lungo la strada. Fu così che nacque l'Appia nuova, un passaggio alternativo verso sud in cui non si doveva pagare. L'Appia nuova però venne riconosciuta e lastricata solo intorno al 1560, inaugurata poi nel 1564 da Papa Gregorio Bonconpagni.
Gli anni passano e solo all'inizio del 1800 ci si inizia a preoccupare di rendere il mausoleo di Cecilia Metella un museo a cielo aperto, come del resto anche tutta l'Appia. Per farlo iniziano i primi espropri che salvaguardano la zona. Dagli scavi che ne conseguono emergono moltissimi reperti come lapidi, statue, sarcofagi e molto altro, che verranno utilizzati per valorizzare il mausoleo attaccandoveli all'esterno.
All'interno invece ci sono diversi reperti come sepolcri, statue, maschere, urne e lapidi. Molti sono i messaggi scritti proprio dai defunti sepolti lungo la via ai passanti che viaggiavano sulla strada: “ehi tu viandante, fermati, ascolta cosa ho da dire. Senti chi ero e che cos'ho fatto quando ero in vita.”
Tutto questo perché per i romani era fondamentale il ricordo dei posteri. Loro pensavano che se qualcuno ti ricordava dopo la morte, ti regalava l'immortalità. Ecco il motivo delle tombe sulle strade, più grande era, più facile era notare e ricordare il defunto.
Entriamo finalmente nel mausoleo di Cecilia Metella, di cui purtroppo non si sa nulla. L'unica informazione che ci è pervenuta è che era figlia di Quinto Cratico, un personaggio importante del primo secolo a c, il quale sconfisse i pirati annettendo così alle province romane l'isola di Creta. Cratico infatti era il soprannome onorario divenuto parte del nome.


Quinto era della famiglia dei Metelli, ricchissimi, potentissimi, ma non patrizi, avevano infatti origini plebee. Cecilia Metella probabilmente fu moglie del primo genito di Crasso, colui che sedo' nel sangue la rivolta di Spartaco, e che costituì insieme a Cesare e Pompeo il primo triumvirato.
All'interno della tomba non c'è più nulla della sepoltura, non si sa nemmeno come poteva essere. Sicuramente le pareti erano rivestite di marmi anche all'interno. Si ipotizza che sia stata sepolta in un urna cineraria e singola, ovvero il mausoleo era solo per lei, molto inusuale per l'epoca che un monumento così ricco fosse dedicato ad una donna.
La struttura conica, oggi completamente senza copertura, salendo verso l'alto tende a restringersi e si pensa che in origine dovesse avere una copertura a volta, sormontata da cipressi, come la tomba di Adriano o di Augusto.
Guardando in alto al mausoleo, si riesce ancora a vedere la decorazione sul marmo che spiega perché questa zona si chiama capo di bove: si vedono molto bene delle ghirlande di fiori e di frutti, tenute da dei bucrani, lo scheletro della testa di un bue.


Dall'esterno si vede la dedica che indica di chi è la tomba, e poi sulle mura del castello sono stati inseriti alcuni resti trovati lì attorno nel 1800.
Proprio di fronte al Castrum c'era la chiesa dedicata a san Nicola di Bari. Risalente al 1302, è l'unico esempio a Roma di chiesa gotica cistercense. Inaugurata da bonificio VIII, venne dedicata a quest'uomo imprigionato e poi liberato da Costantino, che divenne grande vescovo e studioso. E' però ricordato per essere il protettore dei bambini. Infatti nasce qui la leggenda di babbo Natale, Santa Claus: delle fanciulle stavano per essere portate a prostituirsi perché il padre non aveva i soldi per le loro doti e quindi farle sposare. San Nicola gettò nella loro finestra tre sacchetti con del denaro, che divenne la loro dote e le salvò.
Altro miracolo attribuito a san Nicola è quello di aver riportato in vita dei bambini uccisi malamente da un cattivo macellaio.

giovedì 17 marzo 2016

LA VILLA ED IL CIRCO DI MASSENZIO

Dopo circa un anno dalla mia prima visita a Roma, torno tra il secondo e il terzo miglio dell'Appia antica, dove ancora resiste al passare dei secoli il circo di Massenzio. Nota dimensionale: un miglio romano sono all'incirca un chilometro e quattro.
Siamo sull'Appia antica, una delle cose più belle e sottovalutate di tutta Roma, impossibile non parlarne. Come tratto urbano partiva da porta catena, l'attuale piazza Numa Pompilio, e arrivava a porta San Sebastiano. Da qui fino a Frattocchie era il tratto definito suburbano, ovvero quello che attraversava la campagna romana. Oltre questa zona iniziava l'Appia extraurbana, che a tutt'oggi arriva fino a Brindisi.
L'Appia fu costruita da Appio Claudio cieco, soprannome derivante dalla cecità che lo colpì in tarda età. Appio cieco era un personaggio illustre della repubblica che costruì oltre alla via Appia, anche l'acquedotto Claudio. Anche da questo si può capire come mai Augusto, quando fece il suo Foro, vi mise una statua che lo raffigurasse e lo ricordasse.
In realtà Appio cieco con l'Appia ricostruì una strada che già esisteva e conduceva a sud, fino a Santa Maria Capua Vetere. Ovviamente lo fece per prestigio, ma soprattutto per poter permettere a Roma di conquistare il resto del sud. Prolungando la strada nel 190 a c fino a Brindisi, Roma conquistò tutte le terre e le popolazioni che incontrava, aprendosi così una via verso l'oriente, proprio attraverso il porto di Brindisi.
Larga di media 10 metri, per consentire a due carri di passare e ai pedoni di camminare sui marciapiedi laterali, inizialmente era stata costruita con dei basoli di tufo e poi selciata con i basoli vulcanici. Nel 500 d c era ancora considerata una delle migliori strade mai viste per la sua perfezione costruttiva.
I curatori della via Appia infatti venivano scelti tra i personaggi più importanti della politica di Roma, ed era il gradino appena precedente alla carriera di Console. Con il passaggio dalla repubblica all'impero, la strada non perde importanza, anzi, saranno molti gli imperatori che faranno dei lavori su di essa.
L'archeologa sottolinea che i romani, se non avessero avuto queste strade, non sarebbero mai diventati un impero così grande e duraturo. La via Appia è sempre stata importante, perfino quando gli americani entrarono a Roma nella seconda guerra mondiale passarono sull'Appia.
La villa di Massenzio è uno dei gioielli che si possono ancora ammirare al giorno d'oggi lungo l'Appia. Quindi non c'erano solo tombe, ma anche vigne e ville rustiche. Queste ultime infatti, in torno al primo secolo a c, si trasformarono diventando delle residenze di lusso in cui i ricchi romani venivano a trascorrere il loro tempo libero, il famoso “ozium” dei romani: tempo dedicato alla cultura, all'arte e al relax.
Col passare degli anni le ville diventano veri e propri palazzi imperiali e i grandi possedimenti che si affacciano all'Appia, vengono annessi poco a poco a quello che era il demanio imperiale.
Un altro magnifico esempio è la Villa dei Quintili, dove due fratelli molto ricchi e nobili, vennero uccisi dall'imperatore Commodo a causa di “affari interni”, e poi anche per poter annettere i loro possedimenti, villa compresa, al demanio imperiale.
Stesso destino tocco alla villa di Massenzio che, in epoca repubblicana era una residenza agricola, e venne poi in tarda età repubblicana acquistata dalla famiglia degli Anni, nobile famiglia romana. Nel secondo secolo d c tutto questo luogo, compreso la parte dove sorse Cecilia Metella, divenne proprietà di un importantissimo filosofo e studioso greco di nome Erode Attico. Costui era niente meno che il precettore di Marco Aurelio, colui che poi sarebbe diventato imperatore. Erode acquistò il terreno trasformandolo in un enorme tenuta per sua moglie, Annia Regilla.
Ancora non si sa quanto fosse vasto il possedimento di Erode, ma si sa che si chiamava Triopio, a ricordare le sue origini greche. Pare fosse qualcosa di magnifico, con varie dependance, un giardino lussureggiante con tanto di fontane e molto altro ancora.
In realtà la moglie di Erode morì in circostanze misteriose, tanto che molti lo incolparono. Fu per difendersi da tali accuse che costruì questo enorme possedimento, dedicandolo così a sua moglie. Fece erigere perfino un tempietto dedicato ad Annia Regilla, una tomba meravigliosa e altri templi dedicati alla dea Proserpina, alla ninfa Egeria e ad altri dei. Tutto in onore della moglie scomparsa.
Non avendo eredi, alla sua morte l'impero acquistò tutto e agli inizi del 300 d c l'imperatore Massenzio ci poté costruire la sua famosa dimora.
Ciò che rimane oggi della villa non è in buono stato, infatti già dal medioevo tutta l'Appia fu soggetta a spoliazioni che servirono per costruire, non solo le casa in città o chiese e cattedrali, ma perfino le semplici case di campagna dei pastori.
Massenzio nacque nel 278, figlio dell'imperatore Massimiano, si era diviso l'impero con il fratello Diocliziano perché troppo vasto. Prese il potere a Roma per acclamazione dei soldati, ma senza che nessuno lo avesse legittimato. Sono gli anni in cui Costantino cerca anche lui di prendere il potere.


Massenzio per legittimare il suo potere, decide di riportare la capitale dell'impero Roma, fino a quel tempo infatti Diocliziano l'aveva spostata a Milano.
Sarà l'ultimo a riportare il centro dell'impero a Roma, dopo di lui Costantino stabilirà a Bisanzio la capitale.
Massenzio governò poco, dal 306 al 28 ottobre del 312, quando morì durante la battaglia di ponte Milvio contro Costantino, il quale, avendo sposato sua sorella Fausta, era pure suo cognato.
In questi pochi anni di regno Massenzio realizzò la sua Basilica ai fori imperiali e questa immensa villa sull'Appia.
Composta da tre parti, la prima era il circo, unico esempio di circo rimasto a Roma ben conservato. Non era il più grande, qui ci potevano entrare al massimo diecimila persone, ma il potervi passeggiare dentro è ancora un emozione unica.
Oltre agli spalti per gli spettatori, sul lato corto vicino all'Appia, c'erano le carceres, ovvero i cancelli da dove entravano le bighe e le quadrighe.
Le cellette di partenza erano dodici, e per scegliere in quale partire c'era un'estrazione delle quattro fazioni partecipanti, che sceglievano partendo dal loro cavallo di punta.
Dietro le carceres, quindi fuori del circo, si ipotizza che ci fossero le stalle dei cavalli. Ai lati delle carceres c'erano invece la torre sud e la torre nord, ove erano posizionati i giudici di gara.
Tutto attorno alla pista rimangono i muri su cui vi erano le gradinate, capaci di ospitare circa diecimila spettatori. Gli spettacoli, nonostante il circo fosse nella villa imperiale, erano aperti a tutti, proprio per tenere buono il popolo che in questo modo dava il proprio consenso. Le corse erano, assieme ai gladiatori, uno dei divertimenti che i romani apprezzavano di più.
Al centro della pista c'era una struttura detta spina, intorno alla quale i fantini compievano sette giri. Sulla spina stava la tribuna dei giudici che controllavano l'andamento della gara e determinavano i giri restanti.
Al centro delle gradinate, nella parte vicino al palazzo imperiale, è ancora visibile una struttura più alta, la tribuna imperiale.
Prima della gara veniva tenuta una processione dall'organizzatore dei giochi, la cosiddetta pompa dei giochi. Entravano quindi giocolieri, saltimbanchi, musicisti e sacerdoti, che giravano nel circo raccogliendo gli applausi del pubblico.
Il via alla corsa veniva dato facendo cadere un fazzoletto bianco, ma la gara vera e propria iniziava quando i cavalli incrociavano la linea del palco imperiale.


I cavalli giravano per sette volte fino alla meta, un grande cono rovesciato posto alla fine della spina, costruito per dare un riferimento ai fantini che in questo modo, vedendolo avvicinarsi anche in mezzo alle nubi di polvere, sapevano dove avrebbero dovuto girare.
Per segnare i giri, in mezzo alla spina c'erano delle colonne su cui vi erano sette uova di pietra e sette delfini. Quando un uovo veniva fatto cadere indicava un giro completo. Altro metodo era far cadere un delfino oppure fargli spruzzava acqua dal dorso, come una balena.
Finita la gara i perdenti uscivano dai lati del ed il vincitore faceva il giro del trionfo. In fondo c'era un altra porta, dedicata a venere Libitinaria, la protettrice dei morti. A Roma infatti nel suo tempio veniva tenuto un registro dei morti. Durante le gare non c'erano così tanti morti come si potrebbe immaginare, ma gli incidenti erano all'ordine del giorno. I feriti venivano portati via dagli inservienti proprio da quella porta.
Le gare potevano anche durare un giorno intero, per cui tra una sessione e l'altra l'imperatore si ritirava all'interno della grande struttura del suo palco, che conteneva diverse altre stanze.
Anche i giudici, nel loro piccolo, avevano dei locali in cui ritirarsi. Il pubblico invece poteva uscire o mangiare direttamente sugli spalti quello che i bibitari vendevano loro.
Oggi oltre allo scheletro del circo non rimane molto, ma sulla spina c'erano delle fontane ed un obelisco, quello che oggi sta a piazza Navona, sopra la fontana dei fiumi. L'obelisco in realtà arrivava proprio da lì, dove Domiziano costruì il suo stadio e ci mise l'obelisco. Massenzio lo prese e lo trasportò al centro del suo circo. La sua particolarità è che non si tratta di un pezzo originale: fu Domiziano a farlo costruire ed incidere con geroglici causali o inventati. Difatti quando gli egittologi tentarono di leggerlo non ci capirono nulla.
Solo successivamente papa Innocenzo X nel 1600, quando chiese a Bernini di progettare la fontana lo fece ritrasportare nel suo luogo d'origine. Altra curiosità della struttura del circo è che fu costruito in un momento di transizione dell'architettura romana: invece dei soli mattoni, venne utilizzato anche il tufo. Siamo nel trecento.
L'altra struttura visitabile oggi è un grande quadriportico, ovvero una piazza porticata. Non se ne è certi ma forse c'era pure un piano superiore ai portici coperti. Al centro c'è un cortile collegato da varie aperture che lo univa al circo ed alle altre strutture della villa. Qualcuno pensa che ci potessero essere anche i box, le stalle, dei cavalli del circo.
Al centro del giardino interno fu eretto il mausoleo di Romolo, figlio di Massenzio. Questo mausoleo riprende da una parte quello di Alicarnasso, una delle sette meraviglie del mondo antico, e dall'altra il Pantheon, la famosa casa dei dodici Dei dell'impero romano.
Entriamo passando dalla casetta agricola fatta costruire a ridosso del mausoleo dalla famiglia Torlonia.
All'interno, nella prima stanza, possiamo vedere sulle pareti quattro riquadri dove sono rappresentati dei cavalieri, fantini e gladiatori, che hanno ben poco a che fare con il mausoleo. Sembra che qui per qualche tempo ci fu una locanda, una delle tante stazioni di servizio lungo l'Appia.
Nel centro della struttura interna c'era un grande pilastro che serviva a sorreggere la struttura a cupola, ai lati invece si aprono diverse nicchie usate per alloggiare i sarcofagi dei defunti. Probabilmente oltre al sepolcro per il figlio di Massenzio, sarebbe dovuto servire anche per ospitare tutti i defunti della famiglia.
Nella parte opposta da cui siamo entrati c'era un altro ingresso che si pensa possa essere quello privato dell'imperatore, probabilmente c'era un passaggio diretto per accedervi dal palazzo.
L'intonaco che ricopre tutto l'interno era di solo bianco e anche all'esterno, nonostante oggi si vedano solo i mattoni bipidali, doveva esserci una copertura di marmo bianco.
Della villa rimangono solo pochi resti della cosiddetta aula absidata, che doveva essere il palazzo imperiale, e qualche traccia delle terme e poco altro. Purtroppo non sono visitabili, per cui ci spostiamo pochi metri più avanti rimanendo sull'Appia antica.

mercoledì 16 marzo 2016

Sant'Ivo alla sapienza


La visita guidata di oggi è un pochino differente dalle solite: sarà più incentrata sulla storia dell’architettura che sull’archeologia romana. Abbiamo visitato infatti sant’Ivo alla sapienza, un piccolo gioiello realizzato da niente meno che il Borromini.
Entrando nel cortile della vecchia università, ci troviamo di fronte alla facciata di una piccola cappella, fatta erigere da Leone X. Questa fu la prima cappella universitaria inserita nel contesto della prima università di Roma, la Sapienza.
Quello che vediamo oggi però è solo l'ultimo degli interventi che sono stati fatti nei secoli, e lo si deve all'architetto Giacomo Dellaporta: un palazzo unico concepito attorno ad un cortile con un grande porticato al pian terreno, mentre al primo piano c'è un loggiato continuo su tutti e tre i lati.
Fu lo stesso architetto a decidere che il quarto lato doveva già essere ad esedra, in modo da poter realizzare in seguito la nuova cappella universitaria.
L'architetto continuò i lavori del palazzo, che doveva ospitare le facoltà di teologia e di giurisprudenza, fino alla morte, senza concludere la sua opera. I lavori continueranno anche dopo quando, nel seicento inoltrato, si aggiungeranno anche le facoltà di medicina e di matematica.
Il papa che diede inizio ai lavori fu Gregorio XIII Boncompagni, ma i lavori di costruzione proseguirono anche durante i pontificati di Sisto V, Paolo V Borghese, Urbano VIII Barberini e Alessandro VII Chigi.
Fu Urbano VIII ad affidare i lavori al Borromini per la costruzione della nuova cappella universitaria, che venne così dedicata a Sant'Ivo, patrono degli avvocati.
Stando nel cortile e volgendo lo sguardo verso l’alto, si possono scorgere molto bene i segni lasciati da tutti questi papi, ovvero i simboli delle loro casate: il drago della famiglia Boncompagni, il Leone di Sisto V, le aquile della famiglia Borghese. Poi ci sono i colli sormontati da una stella, simbolo dei Chigi. In ultimo ci sono le api dei Barberini.
Sarà Borromini a portare a termine la costruzione del palazzo della Sapienza, il cui nome in realtà sarebbe Studium urbe, ovvero studio dell'urbe.
L'università pontificia rimarrà poi in uso fino ad un epoca modernissima, il 1936, quando Mussolini fece trasferire in questa sede l'archivio di stato, spostando l'università a Castro pretorio.
L'interno di Sant'Ivo, contrariamente a quanto possa sembrare, ha dimensioni molto ridotte, essendo vincolato dal palazzo universitario che lo contiene.


La pianta non è circolare, ma il Borromini, partendo da un triangolo, lo sovrappone ad un altro triangolo rovesciato, e va a realizzare la forma di un ape, simbolo dei Barberini. Studioso dei simbolismi, l’architetto sa molto bene che il triangolo è anche il simbolo della trinità.
La forma composita si ritrova alla fine delle pareti, dove si vedono delle rientranze e delle sporgenze che aggettano su quella che è la cornice, escludendo così per motivi di spazio la trabeazione, ovvero il punto di unione tra le pareti e le cupole.
In questo modo Borromini unisce le pareti con la copertura, la cupola, che non è rotonda, vuole ridisegnare il cerchio perfetto, come nel Pantheon, e dare l'idea della salita infinita. Per farlo apre un cerchio alla fine della cupola che è l'inizio di un ulteriore salita, quella della lanterna che si vede all'esterno.
L'idea della salita infinita pare sia nata da Costantino come idea di progressione, una sorta di pellegrinaggio che dall'esterno, il mondo terreno, entra nella casa di Dio e compie il percorso verso l'altare. Non essendoci qui molto spazio, il percorso viene sfruttato in verticale, salendo verso il cielo.
Lungo le pareti ci sono finti pilastri, rimarcati con dei capitelli, che però negli angoli rientrano, forzando a seguire la salita, restringendosi verso il piccolo cerchio perfetto e vuoto. All'interno infatti sale ancora grazie a delle colonnine che alzano lo spazio verso l'alto.
Tutta la chiesa è bianca, così come le decorazioni. Nella cupola ci sono rappresentate delle stelle che, grandi vicine al cornicione, diventano più piccole man mano che si sale. Ce ne sono cento undici, altro simbolo della trinità: uno più uno più uno.
A questo punto la guida ci racconta chi era Borromini. L’architetto nasce nel canton ticino, ed inizia a lavorare come scalpellino alla fabbrica del Duomo di Milano, venendo così influenzato dall'architettura gotica. Da qui nasce l'idea della risalita gotica, che a Roma manca del tutto prima del suo arrivo.
Borromini si stabilisce a Roma nemmeno ventenne andando a vivere dallo zio Carlo Maderno, colui che era a capo della fabbrica di San Pietro.
Già ottimo scalpellino inizia a lavorare con lo zio e quando questi muore è abbastanza convinto di subentrargli. Purtroppo per lui gli viene preferito il Bernini, il quale non lo caccia ma, conoscendone il grande talento, se lo tiene vicino per affidargli parte di grandi lavori come il baldacchino di San Pietro e in seguito palazzo Barberini.
Usciamo all'esterno per osservare la facciata ad esedra dove si notano i simboli di Alessandro VII Chigi.

La cupola ha la sua parte più complessa in alto, sopra il tamburo che sostiene la lanterna. Qui si riesce a vedere la spirale e le finestrelle, circondate da sporgenze, colonnine e cornicioni. Ci sono anche delle gugliette che in realtà sono fiamme, tutto a cercare sempre la salita infinita. Sopra le fiamme infatti c'è una gabbia in ferro che va verso una sfera, il globo, sopra al quale c'è una colomba con la croce.
L'idea della lanterna il Borromini la prende non solo dal Duomo di Milano, ma anche dal faro di Alessandria, che indicava la strada da seguire alle navi. In questo caso la luce lanterna voleva orientare il fedele verso il divino.
Mai sazio di simbologia il Borromini si ispirò anche alla Torre di Babele, in genere rappresentata con quella forma a spirale, che in questo caso vuole simboleggiare anche le tante culture, le tante lingue, quindi la Sapienza.