venerdì 22 aprile 2016

IL QUARTIERE COPPEDE'

Oggi siamo a spasso in uno dei quartieri più ricchi e benestanti della città, all'interno del quale esiste un vero e proprio gioiello: il quartiere Coppedè, chiamato così in onore dell'architetto Gino Coppedè. Questo visionario progetto, iniziò ad essere realizzato nel 1919e in origine doveva contenere 18 villini e 27 palazzi. Purtroppo l'architetto smise di lavorarci nel 1927, non riuscendo a terminarlo. All'età di soli 61 anni Coppedè morì, lasciando il progetto nelle mani di suo genero, Paolo Emilio Andrè, un bravo architetto che purtroppo non aveva la genialità del suocero. Questi si accontentò di terminare il quartiere nello stile più classico del tempo, il liberty.
Coppedè naque a Firenze nel 1876 da un intagliatore. Crescendo andrà all'accademia e a 24 anni, appena terminata l'università, verrà chiamato da un banchiere scozzese di nome Mckenzie per realizzare il suo castelletto privato a Genova. Nel capoluogo ligure conoscerà persone importanti tra cui due banchieri, i fratelli Cerruti. Continuando la carriera universitaria e diventando professore di architettura, grazie ai fratelli Cerruti riesce a prendere diverse commesse in giro per l'Italia, mentre a Roma entra nei piani regolatori della città. E' il periodo in cui Roma diventa la capitale e quindi ci sono grandi stravolgimenti e importanti lavori da fare. E' all'epoca che nasce la periferia di Roma, anche se oggi questo quartiere è praticamente in centro. Nascono interi quartieri per poter ospitare migliaia di persone che arrivano dal Piemonte, impiegati negli uffici, nelle banche, nei ministeri del nuovo regno d'Italia.
Gino Coppedè venne chiamato a costruire questo quartiere che doveva ospitare impiegati. Solo successivamente, facendosi prendere la mano, gli edifici risultano così belli e di pregio che vengono indirizzati agli amministratori ed ai capi burocrati. I villini infatti finiranno ai dirigenti, mentre nei palazzi si sistemeranno gli impiegati, anche se di un ceto medio alto.
Coppedè utilizza uno stile liberty - art nouveau, ricco però di riferimenti simbolici. Viene perfino indicato come un quartiere massonico, anche se nessuno ha mai potuto affermare che Coppedè ne facesse veramente parte. L'architetto era un grande studioso e amante della storia italiana, tanto che cerca di inserire nelle sue opere continui richiami ed omaggi all'antica Roma, al medio evo, al rinascimento, al barocco. Ci sono anche riferimenti a Firenze e altre città, mischiando tutto in un modo che per chiunque sarebbe stato pericoloso e pesante, mentre lui fa sembrare tutto armonico e bellissimo.
Anche i materiali furono avveneristici per i tempi: cemento armato, maioliche ecc. All'esterno invece utilizza il tufo, il marmo, il laterizio, sempre in riferimento all'antica Roma. Usa però anche il ferro battuto e il vetro rendendo il tutto omogeneo.
Purtroppo anche dopo la morte di Andrè la speculazione edilizia ha avuto il sopravvento, dando frutti del tutto inconciliabili con la bellezza dei primi edifici.
Oggi è una zona di ambasciate e uffici, ma sono ancora molte le case private.
Cassandra mi ricorda che una sua cugina, anche lei trita cariatide e molto brava nel rito dell'aruspicina, ha vissuto qui per qualche tempo, anche se solo in affitto.

La passeggiata inizia a via Dora, dove Coppedè aveva immaginato l'ingresso in questo mondo fiabesco. Un grande arco collega i due palazzi dei cavalieri, rappresentati in un mosaico policromo sulle facciate. Elemento sia romano che medievale.
Subito sotto c'è uno stemma gentilizio, come secoli fa quando venivano utilizzati dalle grandi famiglie per ostentarne la proprio potenza e ricchezza. Essendo originario di Firenze vi applica lo stemma dei medici. Scendendo sulla facciata c'è un mascherone, molto diffusi nell'antica Roma per la loro funzione apotropaica che tiene lontano il maligno. La maschera è sorretta da due efebi, giovani adolescenti dell'arte classica greca e romana. Le maschere inoltre erano utilizzate per recitare, amplificavano le voci degli attori che con la maschera entravano di più nel personaggio.
Ci sono poi delle ghirlande di fiori e frutti, il simbolo dell'abbondanza, della fioritura, della primavera e della fertilità.
Nella torretta si vedono degli angeli chiamati Eroti, una testa di medusa, riferimento alla mitologia greco romana, e poi altri efebi che sorreggono le colonne e varie maschere. In alto una loggetta in stile medievale.
Spostandoci dall'altra parte, vediamo un'altra torretta in stile medievale. In basso sono rappresentate delle api, simbolo dell'operosità. Ci sono altre decorazioni simili a quelle dell'altro palazzo e poi c'è il mosaico di una conchiglia. Simbolo di rinascita, di vita.
All'ultimo piano spicca una fanciulla con le ali spiegate che rappresenta la Nike, la dea della vittoria.
Sotto l'arco si possono vedere, oltre alla firma di Coppedè, anche dei polpi, considerati gli animali degli abissi, in alto invece un lampadario magnifico in ferro battuto con pendagli a forma di biscione, ovvero lo stemma dei Visconti, grande famiglia di Milano.
Sotto l'arco ci sono ancora simboli come i gigli e delle cornucopie, mentre alle due estremità inserisce perfino due piccoli balconi.
Ammaliati da cotanta ricchezza vi passiamo sotto, varcando la porta di Coppedè. Da qui entriamo nel mondo pensato per creare un gioco tra architettura e luci, infatti Coppedè pensò anche a disegnare non solo i palazzi, ma anche le inferriate, i balconi, i lampioni. Perfino i colori dovevano avere un senso, ma questo lo si può ammirare soprattutto di sera.
Arriviamo al centro del quartiere, Piazza Mincio, il fulcro dell'area, pensato proprio per questa funzione.

Al centro della piazza c'è una splendida fontana detta delle rane. Grande ammiratore del Bernini, Coppedè vi si è ispirato prendendo spunto dalla fontana delle tartarughe.
Come nell'originale ci sono degli efebi, anche se in posizione diversa, e al posto delle tartarughe inserisce delle rane. Queste sono anche loro animali fortemente simbolici che indicano la metamorfosi, la trasformazione: da girino a rana.
Il primo palazzo che vediamo è quello del ragno, chiamato così per la presenza sopra il portone di un mosaico con un ragno. Simbolo dell'operosità e della punizione divina. Il mito greco racconta infatti di una fanciulla di nome Aracne, molto brava a tessere, punita per la sua superbia. Lo era così tanto da arrivare a sfidare la dea Atena. Nella sfida lei tesse un disegno raffigurando gli dei che si trasformano in qualunque cosa pur di guadagnarsi una scappatella con gli umani. Perde ovviamente la sfida e Atena la trasforma in un ragno che dalla bocca tesse il suo filo.

Sopra il ragno c'è un altro cavaliere con a fianco la scritta “Labor”, ovvero lavoro. C'è poi un mascherone e salendo si può ammirare come Coppedè abbia fuso diverse tecniche architettoniche: Il travertino, il laterizio, le finestre a loggette con delle colonne tortili. Dietro a questo palazzo c'è qualcosa che già stona con la piazza. E' uno dei palazzi finiti dal genero Andrè, mentre dietro ad esso c'è già un palazzone brutto. Mi spiace per coloro che ci abitano, ma confronto a questi è veramente orrendo. Spostandoci per ammirare un altro palazzo notiamo il simbolo della chiocciola, qui simboleggianti gli animali della sapienza.

Il prossimo è il palazzo di Cabiria, così chiamato in onore del film del 1914 girato da Gabriele D'annunzio e che racconta delle guerre puniche. La cattiva fama dei cartaginesi era quella di mangiarsi i bambini, ovviamente era cattiva propaganda inventata dai romani. Nel film si vede questa grande divinità carteginese detta Moloch, nella cui grande bocca ardevano le fiamme e venivano buttati i bambini.
La grande bocca di Malok nel film è stata la scintilla che ha fatto scattare in Coppedè l'idea della realizzazione il portale d'ingresso di questo palazzo.
Come arricchimento vi sono presenti delle aquile, simbolo di san Giovanni perché volano in alto e si avvicinano al divino. Il rapace è poi stato ripreso anche dall'impero romano, e quello asburgico che invece usò l'aquila bipenne ad indicare la divisione dell'impero d'occidente e d'oriente. Per questo palazzo Coppedè si è ispirato all'oriente, ma soprattutto a Venezia, la città di confine e porta verso l'oriente. Il colore del palazzo è bianco e nero, in omaggio ai mosaici di Roma, ma anche a Firenze e Siena, che utilizzano molto questi due colori.

Attraversiamo la piazza per avvicinarci al villino delle fate.
Questa villa è un omaggio alle tre città di Firenze, Genova e Roma. In riferimento a Firenze si vedono rappresentate sulla facciata, Dante e Virgilio oltre che a piazza della signoria e Santa Maria del Fiore.
Florenza bella” è la scritta che completa uno scorcio della città toscana vista da lontano.
Anche nelle finestre si vede lo stile liberty con i suoi vetri colorati.
Coppedè cerca di riprendere anche il concetto di “Varietas” tipico dell'architettura medievale, e lo usa con i piani: per passare da una parte all'altra della villa si dovevano usare delle scale esterne che salivano ad una torretta, sopra la quale c'è il bellissimo segnavento a forma di gallo.
Anche i cancelli esterni sono decorati: la corona con le api, lo stemma del biscione, tutto viene arricchito senza però risultare troppo pesante.

Altra città rappresentata è Venezia, con l'acqua e il leone di san Marco.
Spostandoci vediamo ora la lupa con i due gemelli Romolo e Remo, poi ci sono altre decorazioni come conchiglie, delle loggette e poi una colonna. Altro riferimento alla Varietas, una sola colonna invece di due.
Sotto ci sono, oltre alle decorazioni, anche gli stemmi delle famiglie nobili.
Pare che in questo quartiere ci abbiano girato alcuni film, come fa notare una signora del gruppo, ma sembra siano stati solo film horror o noir.

Nell'ultimo lato visibile della villa c'è una meridiana, riferimento all'astronomia, e poi l'albero della vita, già presente nelle culture orientali, è il simbolo da cui nasce tutto, sia il bene che il male, l'origine del frutto che se mangiato dà la sapienza. L'albero è formato da tre parti: la chioma, il tronco e le radici, indica il tre, presente, passato e futuro, altezza, larghezza e lunghezza, nonché la trinità.
C'è poi una scena di guerra contrapposta ad una scritta “Domus pacis”, casa della pace. Altro esempio di come Coppedè accostava entrambi i lati della stessa medaglia.
Dall'altra parte della strada c'è un liceo scientifico che fa parte delle realizzazioni di Coppedè. E' in tufo e si vede un mosaico con un gallo una coppa e dei dadi. Questi hanno i numeri uno, tre e cinque. Il dado è il simbolo della stabilità, dell'uguaglianza ma i numeri sono quelli di Dio, della trinità e il cinque della spiritualità, dell'introspezione verso se stessi.
Tutte queste interpretazioni però l'archeologa ci dice che non si sa se siano quelli che Coppedé voleva dare. Furono gli studiosi che dopo anni di ricerche ritennero fossero i più plausibili, per cui non si può affermare nemmeno, come qualcuno ha suggerito in passato, che siano riferimenti massonici o addirittura esoterici.

Ci spostiamo nella parte del quartiere realizzata dal genero di Coppedè.
C'è l'ambasciata del Congo in cui si vede lo stile di Coppedé ma non la rifinitura, la cura e la sua forza espressiva.
Passiamo davanti anche ad una villa completamente nascosta, che probabilmente è una meraviglia, ma che non sapremo mai come è fatta. Solo dai pochi angoli che sfuggono alle protezioni si riesce ad intuire quanto possa essere bella.
Spostandoci sempre di più entriamo in una zona sempre stile liberty, ma con altre case bruttissime nate successivamente. Cerchiamo di fare finta di niente e camminiamo a testa bassa.

L'ultima villa realizzata da Coppedè è un'altra ambasciata, e doveva rappresentare il limite del quartiere.
C'è una torretta e a reggere le coperture lignee ci sono degli esseri apotropaici, dei cavalieri con stendardi, i leoni rampanti, i carri dei trionfi. Su un lato campeggioa lo stemma di Siena, che secondo la mitologia è stata fondata da un ramo degli antichi romani.
Giriamo attorno al villino per ammirarne l'ultimo lato: un basso rilievo rappresentante una processione, un gallo a banderuola e gli stemmi di alcune importanti famiglie e lo stemma dell'aquila.
Lo ammetto, di architettura non so nulla, come di arte del resto, ma ciò non toglie che ad ammirare il lavoro di geni come Coppedè, non si rimanga estasiati e ammirati da quello che una mente così creativa può generare.

venerdì 1 aprile 2016

SANTA CECILIA

Santa Cecilia, nella zona meno frequentata di Trastevere, è una delle basiliche più antiche di tutta Roma, pare infatti che risalga addirittura al quarto secolo d c. Sotto la basilica, circa 4 metri, sono esposti dei resti, che come spesso accade a Roma, sono stati trovati per caso: nel 1899 infatti durante dei lavori nella parte sotto la cripta, vennero scoperti vari ambienti che stanno sotto tutta la basilica, riportandoli alla luce dopo secoli. Successivamente gli ambienti sono stati musealizzati ed oggi li visiteremo cercando di ricostruire la vita che si faceva i questi luoghi.
La prima cosa che si nota scendendo sotto la basilica sono i diversi reperti disposti in modo casuale e poco archeologico sulle pareti di questi ambienti. La storia di queste stanze è molto antica, pare infatti esistessero già dal secondo secolo a c, quando ancora a Roma non c'era l'impero ma era una repubblica. La prima stanza che vediamo era il cortile a cielo aperto di una domus, una tipica casa romana di patrizi. In questa zona, dovevano esserci diverse domus di benestanti che venivano a passare le giornate per rilassarsi, scappando dal caos della città.
Questa domus col passare dei secoli, ha subito diversi cambiamenti, trasformandosi in insulae intorno al primo secolo d c, periodo di grande crescita demografica. Roma infatti nel secondo secolo d c arriverà a contare un milione di abitanti, cifra eguagliata solo da Londra nel 1800.
Oltre alle insulae e alle domus, in questa zona c'erano anche moltissimi magazzini, essendo vicino all'isola tiberina che era il porto di Roma.


Intorno al IV accade ciò che cambierà la storia di questi luoghi. L'omicidio di santa Cecilia, una matrona romana che viveva a Trastevere e venne martirizzata proprio qui a casa sua. L'archeologa ci spiega che a livello archeologico non c'è nulla che indichi questo luogo come casa sua, se non il fatto che fosse un titulus. Nell'antica Roma si parlava di titulus quando un ricco cristiano metteva a disposizione la propria casa per permettere agli altri cristiani di incontrarsi a pregare, senza essere perseguitati.
Spesso poi sopra i tituli sorgevano delle chiese, probabilmente perché capitava che il proprietario venisse scoperto e ucciso, quindi la casa diventava luogo di pellegrinaggio, di preghiera ed infine una chiesa.


Attraversiamo altre stanze per trovarci in un altro ambiente dove sono state appese alle pareti delle lastre tombali. Queste venivano utilizzate nel medio evo perché i cristiani, che seppellendo il corpo per mantenerlo intero, la lastra, oltre ad indicare la tomba, dava un senso di umiltà: le lastre erano a terra nelle chiese e le persone potevano tranquillamente passarci sopra coi piedi, dimostrando che il defunto era umile. Sulla lastra, il volto e l'iscrizione che raccontavano chi vi era sepolto, a volte facevano poteva capire chi fosse il defunto anche solo da come era vestito: un sacerdote per esempio.
Prima del 1200 le lastre venivano raffigurate con gli occhi aperti, poi successivamente gli occhi sono stati chiusi e a volte il disegno rappresentava la testa appoggiata su di un cuscino, come se stesse dormendo, in attesa del risveglio.
Spostandoci in altri ambienti, che forse erano utilizzati come granai, mi rendo conto di quanto grande doveva essere la struttura.
Passiamo in un'altra stanza dove ci sono dei sarcofagi romani. Questi erano spesso molto piccoli, sia perché la mortalità infantile era diffusissima, sia perché un romano adulto aveva una statura media di un metro e cinquanta. Sembra strano dirlo ma mi avrebbero potuto considerare un mezzo gigante.
Sui sarcofagi si potevano facilmente trovare, come in questi casi le iscrizioni agli dei mani, Dis manibus, e delle maschere con funzioni apotropaiche. Su questo sarcofago la scena principale è un banchetto con un cinghiale. Forse rappresenta il mito di Meleagro, un argonauta che tornato dalla sua impresa, si accorse che suo padre il re si era scordato di fare i sacrifici alla dea della caccia Artemide. Questa infuriata mandò un cinghiale a devastare le sue terre. Meleagro allora radunò tutti i cacciatori e fra questi anche Atlanta, una donna bellissima di cui Meleagro era innamorato. Proprio Atlanta colpì il cinghiale, poi finito da Meleagro, che donò ad Atlanta il suo trofeo, facendo però infuriare i suoi fratelli. Tanto per risolvere la situazione senza troppe perdite di tempo Meleagro uccise tutti i suoi fratelli.
La madre, distrutta dal dolore chiese consiglio agli dei per punire il figlio: Essi le ricordarono la profezia che accompagnò la nascita di Meleagro: sarebbe stato sano, ricco e nobile finché il tizzone che ardeva nel suo camino fosse rimasto intatto. Così la madre, che aveva conservato quel tizzone, lo prese e lo gettò nel fuoco, uccidendo Meleagro.


Mi sono sempre piaciuti i miti greci, perché bene o male mettono sempre a posto le cose in modo definitivo.
Ci spostiamo nel larario della domus, il luogo più sacro della casa, dove veniva messo un altarino ad alcuni dei. Di solito il larario, in questo caso fatto in terra cotta e quindi di epoca repubblicana, si trovava vicino al cortile. Vicino ad esso c'era sempre un armadio in cui gli abitanti della domus tenevano le maschere di cera che utilizzavano durante i riti funebri.
Negli scavi sono state ritrovate anche parti di anfore, per cui si pensa che questa stanza possa essere stata usata successivamente come magazzino.
Subito attigua a questa stanza c'era il balneum: il predecessore delle terme, ovvero un primo ambiente termale molto più piccolo, che solo i più ricchi potevano avere in casa.
È anche la parte più sacra della domus perché si pensa che sia la stanza dove santa Cecilia sia stata martirizzata. La storia racconta che la matrona venne uccisa perché cristiana. Il primo tentativo di omicidio fu proprio rinchiudendola per tre giorni nel calidarium, dove le temperature potevano arrivare anche a 80 gradi. Passati i tre giorni però scoprirono che Cecilia non era ancora morta, così decisero di usare un altro metodo. La decapitazione. Anche in questo caso però i tre tentativi non ebbero molto successo e Cecilia impiegò tre giorni a morire.
Diventando meta di pellegrinaggio, la stanza venne trasformata, grazie anche all'acqua del balneum, in un battistero, uno dei più antichi di Roma.
Arriviamo finalmente alla cripta, rifatta all'inizio del 1900, dove sono custoditi i sarcofagi di Santa Cecilia, suo marito e suo cognato.
La cripta è in stile cosmatesco e rimane sotto il ciborio della basilica. Qui sono custoditi i resti di Santa Cecilia che furono ritrovati nelle catacombe di San Callisto. Solo allora si poté erigere la chiesa che vediamo oggi. Questo perché a quei tempi, nell'821 dc, non si potevano costruire delle chiese se non c'erano delle reliquie da poter custodire.
Dietro la cripta c'è ancora il martirium, un corridoio che il pellegrino poteva percorrere attorno al corpo del martire, giusto per potersi soffermare a pregare e sentire più vicino al martire.
Saliamo al piano superiore per ammirare il mosaico del nono secolo, uno dei mosaici più antichi di Roma.
Fu Papa Pasquale I che nel 821 fece erigere la chiesa e il mosaico, unica parte rimasta originale dopo la ristrutturazione del 1200 che ha visto anche la realizzazione del ciborio. Questo, diverso da un normale baldacchino, ha la funzione di far risaltare non appena si entra in chiesa, il luogo più sacro, ovvero l'altare e ciò che vi sta sotto: le reliquie di santa cecilia e degli altri martiri.
Nel 1599 il cardinale Sfondrati, decide di riesumare il cadavere di santa Cecialia. Questo perché già all'epoca di Pasquale primo, circa 500 anni prima, il corpo di santa Cecilia fu ritrovato ancora intatto, come se fossero passati solo pochi giorni. Quando nel 1599 il cardinale apre la tomba lo ritrova ancora perfettamente intatto. Allora il cardinale chiama l'artista Stefano Maderno per immortalare la santa con una splendida statua in marmo rappresentante la posizione in cui venne trovata: con un velo sulla testa e sul collo il segno della lama che la sgozzò. Le mani invece indicano un tre ed un uno.
La statua originale è in mostra nella chiesa, mentre nelle gallerie delle catacombe di san Callisto vi è una copia.
Usciamo un po' stremati da questa lunghissima ed intensa visita, un po' stupiti dall'energia dell'archeologa che in queste due ore non ha smesso di raccontarci la storia, da vera appassionata quale è.
Questi sono i momenti in cui penso a quando da bambino volevo fare l'archeologo anche io. Chissà, quando ho cambiato idea?